lunes, 5 de agosto de 2019

IL PRINCIPE SENSIBILE - Narciso e il cortese cavaliere

7. Il principe sensibile

IL PRINCIPE SENSIBILE


Disse lo re: "Chesta sia 'n capo de lista, ca l'aggio da caro" (Basile)
Disse il re: "Questa sia la prima della lista, perché così mi piace".



1. Né per bellezza né per abbigliatura...

Il processo di rimozione che la fiaba subisce dal momento in cui si è cominciato a dedicarla ai bambini è descrivibile come rimozione del bambino stesso. Scrivendo storie per lui gli adulti hanno preferito rassicurarsi sulla sua innocenza: la psicoanalisi, con il suo bambino freudianamente perverso e polimorfo, si muova in modo radicalmente diverso. Se uno psicoanalista parla dell'infanzia, descrive una condizione umana che non ha nulla a che vedere con visioni rassicuranti o consolatorie. Quando l'adulto pensa al bambino come a un essere privo di aggressività, di pulsioni erotiche e di angoscia, è preso da un mito delle origini analogo a quello del paradiso terrestre che avrebbe preceduto la nostra caduta in questo mondo, dove siamo segnati da un destino cinico e baro. Ma riconoscere  il dramma e le perturbanti paure dell'essere umano che cresce non è solo la perdita di un'illusione. Attraverso l'esercizio della conoscenza, il pensiero procede non ritraendosi moralisticamente, e smette di eufemizzare e imbellettare ciò che non gli piace vedere. Insieme al conflitto, alla via dolorosa, alla prova, c'è la luce improvvisa, la trasformazione profonda, la ricchezza del tesoro. Come nelle fiabe, se si fugge alla vista del drago, non si può accedere al tesoro, se si scotomizzano angoscia e paura, non si accede al sentimento della realtà e alla ricchezza creativa.
L'analisi di Cenerentola ci fa scoprire che la rimozione dello sporco, o dell'uccisione della matrigna, come nella versione di Perrault e Disney, implica la perdita di valori simbolici e di percorsi narrativi, preziosi. Oltre alla cura della pianta, o del seme, che simbolizza la capacità di nutrire e far crescere qualcosa di piccolo, la cui potenza è nascosta, si può perdere, ad esempio, il numero rituale delle trasformazioni di Cenerentola da brutta-bestia a bella e viceversa.


3. Tutt' li nom' son sotto il sole

Da molto non tornavamo a Pelle d'Asino, che ha in comune con Cenerentola sia la trasformazione da bellissima a bruttissima, sia il tema del riconoscimento: che richiede l'entrata in campo di un principe sensibile.
Ce ne offre un bell'esempio, fra tanti, la versione molisana Tacc' taccun' d' Maria d' legno, già ricordata, nella quale si racconta di una fanciulla che finì a servire nel pollaio di una reggia. Si chiamava Maria, ma quando glielo chiesero disse di chiamarsi Maria d' legno. Sporca da far pietà, al mattino portava al principe le uova fresche, e un giorno, mentre si puliva le scarpe, questo principe disse:

- Stasera vaglie da balle. -
Facett' chesta:
- Pecchè nen m' c' puort' pur' a me?
- Ma vavatten'! Addonda a ra i, brutta zuzzosa. - E r' mena la spazzola appriess'.
Chesta z' piglia la spazzola e z' la porta (Gioielli, cit., p. 458).

Il mattino dopo il principe si stava lavando i denti, e alla richiesta di Maria, di portarla al ballo, le tirò dietro lo spazzolino, mentre il terzo giorno fu la volta dell'orologio tascabile: Maria d' legno si prese anche questi due oggetti, e la sera si preparò per il ballo. Non disponeva di abiti magici, ma appena si lavò divenne bellissima. Quando la vide arrivare il principe ballò solo con lei, e non sapendo chi fosse le chiese come si chiamava. Maria d' Legno non rispose, ma poi:

Prima de la mezzanott' ... ricett':
- Mi chiam' "Spazzolappress' " - e z' n' scappatt'.
(Ivi, p. 459)

Il mattino dopo, quando andò a portargli le uova fresche, il principe le raccontò della sconosciuta che gli piaceva tanto, e del suo strano nome, e a sera Maria andò al ballo ancora più bella. Disse che il suo nome era Spazzolinoappresso e fuggì.
Per la seconda volta il principe raccontò cos'era successo al ballo, e Maria, sentendo lo strano nome della sconosciuta, osservò:

...Tutt' li nom' son sotto il sole -
Ricett' quist':
- Ma ch' t' mangie tu, il giorno? -
- Eh... che m' magn'? M' magn' l' tacc' taccun', l' tacc' taccun'. -
- E come t' l' magn'? - ric' - Rent' a ru pollaie c'è spuorch' -
- Eh... signor Maestà, a l' tacc' taccun' c' sta la pirucchiella, la munn'zella, la cuzz'chella ... com' vienn' m' l' magn' - ricett' (Ivi, pp. 459-460).

Recatasi per la terza volta al ballo, alla domanda del principe Maria rispose di chiamarsi Ur'loggeappriess', e fuggì di nuovo, lasciandolo così disperato che il giorno dopo dovette mettersi a letto. Alla regina madre disse che voleva l' tacc' taccun' d' Maria d' legno (le tacconelle sono un piatto di pasta), e per quanto lei cercasse di dissuaderlo, facendogli osservare in quale sporcizia viveva la ragazza, non ci riuscì. Allora la regina andò al pollaio, chiese a Maria 'd legno di preparare la pasta per suo figlio, e le raccomandò di ripulirsi bene prima di cominciare. Ma Maria d' legno disse:

- Eh, signor Maestà, com' vienn' z' l' magna. E ch' pozz' fa? Rent' a lu pollaie c' sta la cuzz'chella la pirucchiella... chell' com' vienn' z' l' magn' (Ivi, p. 461).

In questa fiaba, tutta giocata sul tema della condizione sporca, degradata, nella quale vive la protagonista, vediamo che la regina madre, pur provando disgusto, asseconda la volontà del figlio. Maria 'd legno è disposta a palesare la sua identità solo se l'accettazione dello sporco avverrà senza limiti e senza riserve. Per tre volte preparerà le tacconelle, mettendo uno dopo l'altro sotto la pasta la spazzola, lo spazzolino e l'orologio tascabile, tutto ciò che il principe le ha tirato dietro in segno di disprezzo. La Pelle d'Asino molisana dice che tutti i nomi sono di sotto il sole, ogni volta che il principe osservava la stranezza dei nomi della bella sconosciuta:  così indica al principe che il senso, il valore del nome, della parola, va cercato anche, o soprattutto, dove sembra assente. Osserviamo inoltre che lei stessa dice di chiamarsi come la pasta, tacc' taccun', chiesta dal principe: e lui finalmente mangia di gusto, senza badare allo sporco di pirucchiella, munn'zella, cuzz'chella, nel quale si preparano, come la sua amata.
Il principe può seguire la traccia della sconosciuta, i suoi strani nomi, che sono tutti nomi sotto il sole, perché accetta il collegamento tra il suo amore, per la bella, e il suo disprezzo, per la serva pidocchiosa del pollaio. Il principe sensibile opera una trasformazione perché accostando bellezza e bruttezza, desiderio e sporcizia, cerca la donna là dove ha bisogno di essere trovata: fuori dall'idealizzazione che la vorrebbe separata dalla sua storia complessa, dalla maturazione dolorosa. Desiderandola veramente, il principe dovrà riconoscere la sua bontà, la bontà di Maria d' legno, tra i pidocchietti e le sostanze maleodoranti del pollaio.
Dopo aver mangiato il secondo piatto di tacconelle, nel quale ha ritrovato lo spazzolino, il principe sembra aver chiara l'identità della sua amata:

Ru iuorn' appriess' nen chiammava cchiù: "voglie 'l tacc' taccun d' Maria d' legno", ma:
- Mamma voglie Maria d' legno! Mamma voglie Maria d' legno! -
Allora la mma iett' ... tutta cosa,
- Ma ch' tè succiess? -
- Mamma i' voglie Maria d' legno. Voglie gl'atre tacc' taccun'. Va'! Va'! Vacc'l' a dic'! - (Ivi).

Così mangia per la terza volta 'l tacc' taccun d' Maria d' legno, sotto alle quali trova l'orologio che le aveva tirato appresso: a questo punto la richiesta che rivolge alla madre è inequivocabile:

- Mamma voglie prota Maria d' legno! m' l'ara ì a piglia! Voglie Maria d' legno! (Ivi).

Bisogna sapere che la nostra eroina si fa vedere tutta sporca, ma quando è da sola nel pollaio si tiene in ordine e pulita: così la scopre la regina madre, guardandola dal buco della serratura. Costretta a uscire bella e pulita come si trova, Maria chiede pietà alla regina e le racconta tutta la sua storia: la regina non solo la comprende, ma è ben contenta di farle sposare il figlio, che, come dice, è sciut' pazz', è impazzito per lei.
 Il recupero della bellezza richiede una figura materna disposta ad accettare che il proprio figlio sia nutrito da una serva repellente, che prepara il cibo tra pidocchi e la sporcizia del pollaio.
Il principe che sposa Spazzolappress', o Maria d'legno che dir si voglia, ha superato la fissazione a un'immagine ideale della donna, come la regina madre non disdegna di far preparare la pasta nel pollaio.



4. Il bacio dell'orsa

Il motivo del cibo come veicolo simbolico di riconoscimento tra il principe e la protagonista non ancora scoperta è in moltissime versioni di Pelle d'Asino, ma l'interazione fra il principe e la regina madre nella fiaba molisana ci sembra profondamente e felicemente apparentata con l'Orsa, un Cunto del capolavoro secentesco (Basile, cit., pp. 356-369). I motivi e le felicissime soluzioni narrative del Cunto de li cunti o Pentamerone sono sparsi in ogni raccolta dell'Italia meridionale, come se in ogni chiesa, per quanto piccola e semplice, fosse riconoscibile in un capitello, in una statua, o in una colonna, l'impronta della meravigliosa cattedrale elevata in quell'area culturale.
Questa Pelle d'Asino, la principessa Preziosa, si era trasformata in orsa e si era rifugiata in un bosco, dove viveva con le bestie feroci. Quando un principe cacciatore la vide, dapprima si spaventò, ma poi si accorse che si lasciava addomesticare, e chiamandola con tanti vezzeggiativi la portò al suo palazzo. La fece accomodare nel suo giardino e ordinò ai servitori che la curassero come facevano con lui stesso. La trasformazione di Preziosa era reversibile: era diventata orsa mettendosi uno steccolino in bocca, e se voleva tornare fanciulla bastava che se lo togliesse. Un giorno il principe si affacciò alla finestra per vedere la sua orsa, e vide invece la principessa, che credendo di essere sola voleva acconciarsi i capelli: si precipitò per le scale, ma Preziosa si era già ritrasformata in animale. Il povero principe si ammalò, e non faceva altro che dire: Orsa mia, orsa mia! 
La regina madre pensò che l'orsa gli avesse fatto del male, e ordinò ai servitori di ucciderla, ma siccome tutti nella reggia erano affezionati all'animale, disobbedirono alla regina, e la riportarono nel bosco dove il principe l'aveva trovata.
Quando gli arrivò questa notizia, il principe montò a cavallo come impazzito, andò nel bosco a ritrovarla, la riportò nella reggia, e, presala da parte, le disse:

O bello muorzo de re, che staie 'ncaforchiato drinto sta pella! o cannella d'ammore, che staie 'nchiusa drinto sta lanterna pelosa! a che fine fareme sti gatte-felippe, pe vedereme sparpatiare e iremenne de pilo 'm pilo? io moro allancato, speruto ed allocignato pe ssa bellezza e tu ne vide li testemonie apparente, ca io so' arredutto 'n tierzo comm'a vino cuotto, ca n'aggio si no l'uosso e la pella, ca la freve me s'è cosuta a filo doppio co ste vene. Perzò auza la tela de sso cuoiero fetuso e famme vedere l'apparato de sse bellizze, leva leva le frunne da coppa sso sportone e famme pigliare na vista de ssi belle frutte; auza sto sportiero e fà trasire st'uocchie a bedere la pompa de le meraviglie! chi a puosto a na carcere tessuta de pile n'opera cossì liscia? chi ha serrato drinto no scrigno de cuoiero cossì bello tesoro? famme vedere  sso mostro de grazie e pigliate 'm pagamiento tutte le voglie mie, bene mio, ca lo grasso de ss'orza pò schitto remmediare a l'attrazione de nierve ch'io tengo (Basile, cit., pp. 364- 366).

(O bel boccone di re, che stai rintanato in questa pelle! o candela d'amore, che stai chiusa in questa lanterna pelosa! perché farmi questi cucù-setè, per vedermi consumare e andarmene pelo dopo pelo? io muoio affamato, consumato e stremato per questa bellezza e tu ne vedi le prove evidenti, perché io sono ridotto a un terzo come il vino bollito, non ho altro che l'osso e la pelle, la febbre si è cucita con filo doppio su queste vene. Perciò alza la tela di questo cuoio puzzolente e fammi vedere l'apparato delle tue bellezze, togli togli le fronde da questa cesta e fammi guardare questi bei frutti; alza questa cortina e fai passare gli occhi a vedere la pompa delle meraviglie! chi ha messo in un carcere di peli un'opera così liscia? chi ha chiuso in uno scrigno di cuoio un tesoro così bello? fammi vedere questo mostro di grazia e prenditi in pagamento tutti i miei desideri, bene mio, perché soltanto il grasso di quest'orsa può essere un rimedio per i miei nervi rattrappiti (Ivi, pp. 365-367)

Cosa manca a Preziosa per lasciare il suo carcere di peli? abbiamo detto che il principe sensibile deve riconoscere che la bella e la bestia sono la stessa persona, ma non basta: il principe deve amare la bella nella bestia, e la bestia nella bella. Nell'accorata preghiera l'animale è disprezzato, mentre la principessa è amata: la trasformazione del femminile non è ancora avvenuta, perché il maschile se ne rappresenta le due polarità come contrapposte, e come vuole la parte bella con tutto se stesso, vuole la distruzione della parte animale. Il valore psicologico di questa rappresentazione è sublime: non basta riconoscere il luogo ferino, o sporco, in cui si nasconde la donna amata, occorre amare quel luogo insieme a lei.
Il silenzio dell'orsa fa aggravare la malattia del principe, e i medici lo danno ormai per spacciato. Allora entra in scena la regina madre, parente stretta di quella che abbiamo incontrato nella versione molisana, e sollecita il figlio a chiederle qualunque cosa: il principe vuole che venga nella sua camera l'orsa, e che si prenda cura di lui. La regina madre personifica una funzione materna positiva. Al posto del narcisismo abbiamo una figura materna che accetta di far nutrire il figlio da una sporca serva o da una bestia feroce. C'è una madre che amando il figlio lascia che sia curato da un animale feroce, come nella versione molisana chiedeva per lui il cibo preparato nel pollaio.

La mamma, si be' le parze no spreposeto che l'orza avesse da fare lo cuoco e lo cammariero e dubetaie ce lo figlio frenetecasse, puro, pe contentarelo, la fece venire. La quale, arrivato a lo lietto de lo prencepe, auzaie la granfa e toccaie lo puzo de lo malato, che fece scorreiere la regina, penzanno ad ora ad ora che l'avesse a sciccare lo naso.
Ma, lo prencepe decenno a l'orza: "Chiappino mio, non me vuoie cocinare e dare a magnare e covernare?", essa vasciai la capo mostranno d'azzettare lo partito. Pe la quale cosa la mamma fece venire na mano de galline e allomare lo fuoco a no focolaro drinto a la stessa cammara e mettere acqua a bollere e l'orza, dato de mano a na gallina, scaudatola la spennaie destramente e, sbrentatola, parte ne 'mpizzaie a no spito e parte ne fece no bello 'ngrattinato, che lo prencepe, che non ne poteva scennere lo zuccaro, se ne leccaie le deieta, e comme appe fornuto de cannariare, le deze a bevere co tanta grazia che la regina la voze vasare 'n fronte.
Fatto chesso, e sciso lo prencepe a fare la preta paragone de lo iodizio de li miedece, l'orza fece subito lo lietto e, corza a lo giardino, cogliette na bona mappata de rose e shiure de cetrangolo e 'nce le sparpogliaie pe coppa, tanto che la regina disse che st'orza valeva no tresoro, e c'aveva no cantaro de ragione lo figlio de volerele bene.
Ma lo prencepe, vedenno sti belle servizie, ionze esca a lo fuoco e se primma se conzomava a dramme mo se strodeva a rotola e disse a la regina: "Mamma, 'gnora mia, si no dongo no vaso a st'orza, m'esce lo shiato!". La regina, che lo vedeva ashevolire, disse: "Vasalo, vasa, bell'anemale mio, non me lo vedere speruto sto povero figlio!".
Ed accostatose l'orza, lo prencepe pigliatola a pezzechille non se saziava de vasarela e, mentre stevano musso a musso, non saccio comme scappaie lo spruoccolo de vocca a Preziosa e restaie fra le braccia de lo prencepe la chiù bella cosa de lo munno. Lo quale, stregnennola co le tenaglie ammorose de le braccia, le disse: " 'Ncappaste sciurolo, non me scappe chiù senza ragione veduta!" (Basile, cit., pp. 366- 368).

(La mamma, anche se le sembrò uno sproposito che l'orsa dovesse fare da cuoca e da cameriere e se sospettò che il figlio stesse farneticando, tuttavia, per accontentarlo, la fece portare. E lei, arrivata al letto del principe, alzò la zampa e toccò il polso del malato e fece spaventare la regina, convinta che da un momento all'altro gli avrebbe strappato il naso.
Ma, quando il principe disse all'orsa: "Chiappino mio, vuoi cucinare per me e darmi da mangiare e prenderti cura di me?", lei abbassò la testa indicando che gli stava bene. Per questo la mamma fece portare un poco di galline e accendere il fuoco in un camino nella stessa camera e mettere a bollire l'acqua e l'orsa, presa una gallina, la scottò, la spennò abilmente e, dopo averla fatta a pezzi, parte ne ficcò in uno spiedo e parte ne fece un bel gratinato e il principe, che non riusciva a mandar giù lo zucchero, finì per leccarsi anche le dita e, quando ebbe finito d'ingoiare, gli diede da bere con tanta grazia che la regina volle baciarla in fronte.
Fatto questo, mentre il principe faceva un poco di roba per gli esami dei medici, l'orsa fece subito il letto e, corsa in giardino, colse un bel mazzo di rose e di fiori di cedro e li sparpagliò là sopra, tanto che la regina disse che quest'orsa valeva un tesoro e che il figlio aveva un vaso da notte di ragione a volerle bene.
Ma il principe, vedendo questi bei servizi, aggiunse esca al fuoco, e se prima si consumava a chili ora si sbriciolava a quintali e disse alla regina: "Mamma, signora mia, se non do un bacio a quest'orsa mi scappa via il fiato!". La regina, che lo vedeva venir meno, disse: "Bacialo, bacia, bella bestia mia, non me lo far vedere distrutto questo povero figlio!".
E l'orsa si accostò e il principe la prese e non si saziava di sbaciucchiarla  e, mentre stavano muso a muso, non so come il bastoncino cadde di bocca a Preziosa e tra le braccia del principe restò la più bella cosina del mondo. E lui, stringendola con le tenaglie amorose delle braccia, le disse: "Ci sei caduto scoiattolo, non mi scappi più senza ragion veduta!". (Ivi, pp. 367-369).



5. Narciso e il cortese cavaliere

Il percorso trasformativo di Cenerentola e Pelle d'Asino coi loro principi sensibili è il gioco della vita stessa, che si ricrea nell'incontro fra esseri diversi. Va percorsa la separazione dai genitori, e l'emancipazione dai modelli collettivi che rappresentano, in una sorta di accettazione vertiginosa, catastrofica, della propria verità intima. Proprio quando la separazione è massima, come nella cenere o nella pelle animale, una nuova unione diventa possibile, proprio quando l'accettazione della diversità, fino a quel punto impensabile, dell'altro e dell'altra, ha luogo, contenitore e contenuto, maschile e femminile, si legano. La completezza è possibile quando l'incompletezza è radicalmente accettata.
Figura essenziale del rifiuto dell'incompletezza è Narciso, che torniamo a cercare in Ovidio, insieme alla sua innamorata Eco. Dal principio della sua favola la ninfa Eco non parlava per sé: intratteneva con i suoi discorsi Era per tenerla lontana dai convegni amorosi di Zeus. Quando Era scopre il suo inganno, come una matrigna la punisce, radicalizzando e rendendo tragico proprio il suo discorrere non per se stessa: Eco è condannata a ripetere solo le ultime parole dei discorsi degli altri. Potrebbe essere l'amante ideale per Narciso, perché può echeggiarlo, non essendo che un riflesso della voce degli altri.
Quando Eco segue i suoi passi, Narciso parla:

..."Ecquis adest?", et "Adest!" responderat Echo.
Hic stupet, utque aciem partes dimittit in omnes,
voce "Veni!" magna clamat: vocat illa vocantem.
Respicit et rursus nullo veniente: "Quid" inquit
"me fugis?" et totidem, quot dixit, verba recepit.
Perstat et alternae deceptus imagine vocis
"Huc coëamus!" ait, nullique libentius umquam
responsura sono "Coëamus!" rettulit Echo
et verbis favet ipsa suis egressaque silva
ibat, ut iniceret sperato bracchia collo.
Ille fugit fugiensque manus complexibus aufert:
"Ante" ait "emoriar, quam sit tibi copia nostri!"
Rettulit illa nihil nisi: "Sit copia nostri!"
(L. III, vv. 380-391)

"Chi c'è qui presente?" - "Presente" rispose la ninfa. / Egli stupisce e girando lo sguardo da tutte le parti / "Vieni!" gridò con gran voce; e la ninfa chiamò lui che chiama. / Guarda di nuovo, né alcuno venendo, "Perché mi t'involi?" / disse; e la ninfa ogni volta ripete le voci di lui. / Egli si ferma e, deluso dal suono di quell'altra voce, grida "Qui uniamoci!" - "Uniamoci!" pronta rispondegli l'altra. / Né mai avrebbe risposto più lieta a qualunque altra voce. Le sue parole seconda ed, uscita dal bosco, correva / per abbracciare quel collo desiato. Ma fugge Narciso / e, nel fuggire, le strappa le braccia all'amplesso e "Ch'io muoia! / prima che io sia di te!" Ma soltanto rispose la ninfa: / "Ch'io sia di te!" (Le Metamorfosi, cit., vol. I, p. 123).


Narciso propone l'unione a Eco attratto dalla sua natura di specchio, e la respinge quando vede il suo corpo, la sua realtà da fuggire in quanto alterità irriducibile. Morire piuttosto che essere un tuo possesso, ma copia nostri, significherebbe alla lettera ricchezza di me.
Difficile non ripensare a questo proposito alla teoria kleiniana sull'invidia del seno, che distrugge la possibilità di una relazione creativa, attaccando il proprio sé come l'altro da sé. Narciso escludendo l'amore verso l'altro può illudersi di mantenere il pieno possesso di se stesso: aborrisce Eco quando la vede oltre a sentirne la voce che ripete le sue parole, fugge dalla realtà corporea della ninfa.
L'indovino (transessuale!) Tiresia, consultato alla sua nascita, aveva detto che Narciso avrebbe vissuto fino a che non avesse visto se stesso. Nel narcisismo l'innamoramento segna una catastrofe: si desidera misconoscendo l'alterità di chi si ama, ci si chiude alle sue parole diverse. Mentre crediamo di conferirgli bellezza, lo perdiamo di vista, idealizzandolo non possiamo riconoscerlo. Tante volte la realtà degli amanti si dissolve, la relazione muore nel dolore, proprio perché si ripete la tragedia di Eco e Narciso: la diversità dell'altro dal modello ideale che prima avevamo creduto di vedere o sentire, o la nostra diversità dal modello di cui eravamo portatori, è avvertita come un tradimento, e non resta alcuna possibilità d'incontro. Oppure, se la relazione si chiude per un motivo che si considera oggettivo ed esterno ad essa, si può restare con la propria parte più viva a fissare l'immagine ideale e perduta, nell'illusione di un rispecchiamento, che permane solo a condizione che la realtà dell'altro, la sua diversità, il suo corpo, non si manifesti più.
Narciso si innamorerà perdutamente della propria figura rispecchiata da una fonte, che, secondo una versione ellenistica del mito, è la madre stessa trasformata in specchio d'acqua. L'incorporeità, la natura illusoria, il riflesso rimandato da quest'acqua materna, il sé perduto, è identico a sé, speculare come le parole di Eco. Ma mentre Eco poteva comparire come altro da sé, l'immagine nell'acqua non è altro che riflesso: troppo amata per potersene distaccare, è troppo labile per poter essere toccata. Narciso contemplandola dimentica anzitutto il proprio corpo, perché non mangia più, e si consuma nel dolore, come la ninfa aborrita.
Infatti Eco, dopo essere stata respinta e disprezzata da Narciso, si era rifugiata nella solitudine, a consumarsi d'amore, fino a distruggere il corpo che ha impedito l'unione. Si è assottigliata e ha perso consistenza, in una sorta di anoressia mitica, fino a che, svanendo nell'aria, resta solo come voce, che ancora ripete fra i monti le nostre parole. Eterna, come Narciso è eterno nel fiore che cresce col suo nome vicino alle acque.
Prima di morire Narciso comprende che la ricchezza, il possesso di sé, va donata e perduta per poterla trovare: il possesso implica la perdita della ricchezza, il dono la fa trovare, perché ogni trasformazione profonda, nella realtà psichica come nella fiaba, deve una parte essenziale a qualcosa che sfiora il segreto di grazia della vita.
La distanza tra gli amanti, di cui Narciso comprende il valore, non è pensabile se non ha avuto luogo la separazione dalle figure genitoriali: elaborando questa rottura, questo lutto, il soggetto può procedere verso la propria autonomia, e verso il desiderio dell'altro.

Quod cupio, mecum est: inopem me copia fecit. (L'abbondanza m'ha fatto miserabile)
O utinam a nostro secedere corpore possem!
votum in amante novum: vellem, quod amamus abesset!
(cit.)

Tornando a Cenerentola possiamo ora dire che le sue nozze regali, il lieto fine della fiaba, rappresentano la meta di un percorso di trasformazione complesso, un patrimonio di esperienza profonda raramente accessibile nella vita di una sola persona.
L'attaccamento alle figure parentali determina un gioco endogamico degli affetti, che si ripete nella ricerca dell'altro: l'oggetto d'amore è indispensabile alla nostra vita come per Narciso la sua propria immagine.
Nell'innamoramento la più grande disperazione per l'amante non è la lontananza o la perdita dell'amato, ma l'incertezza sul proprio essere. All'altro, come al riflesso di Narciso, è conferito un arbitrio che nessuna persona reale può esercitare: si supplica l'amato di accogliere e confermare la ricchezza e la verità del proprio sentimento, che coincide con il nostro essere. Accogliendo, rispecchiando, la nostra bellezza, confermando la realtà e la legittimità del nostro desiderio, darà senso definitivo alla vita, rifiutandoci ci condannerà a morire.
Ricordiamo le parole di una struggente canzone di Pier Paolo Pasolini:

Ch'io possa essere dannato
se non ti amo
e il mondo non esiste
se non è vero. 

Canzone dal film Cosa sono le nuvole?, regia di P.P. Pasolini (parodia Otello!); parte di Capriccio all'italiana (1969).

Il desiderio struggente non è rivolto al possesso dell'amato, somigliando piuttosto a un vortice tragico intorno al fondamento del proprio amore: se non si conferma la verità del proprio sentimento, è il mondo intero a perdere la sua realtà.
Per questo Amleto può rinunciare ad Ofelia, ma non a chiederle la stessa conferma:

Doubt thou the stars are fire;
Doubt that the sun doth move;
Doubt truth to be a liar;
But never doubt I love.
(A. II, Sc. 2)

Dubita che gli astri siano accesi / dubita che il sole si muova / dubita che la verità sia bugiarda / ma non dubitare mai che io ami.


Il desiderio dell'unione con l'altro è qualcosa che non ha il suo centro nella conferma del proprio essere: la bruttezza, la condizione servile, la sporcizia di Cenerentola o di Pelle d'Asino, i loro occultamenti, sfidano il principe sensibile a staccarsi dalla contemplazione della bellissima immagine di cui si è innamorato al ballo. La bella che vuole essere trovata nel pollaio, o nella forma di orsa, o nella cenere, è distante da Eco quanto il principe sensibile è distante da Narciso. Staccarsi dalla bellezza come luogo di rispecchiamento significa rinunciare alla conferma della propria identità, del senso stesso del proprio essere, mantenuta nel riflesso dell'altro.

C'è una storia della bruttezza femminile che desideriamo ricordare ora (la storia è riportata da Chaucer in "The Wife of Bath's Tale"), in cui si narra che una volta Re Artù vide un cervo e lo inseguì. Lo raggiunse e lo uccise, ma, mentre lo scuoiava, fu sorpreso da un grande cavaliere sconosciuto, che voleva ucciderlo: il re protestò che in quel momento lui era vestito solo di verde. Allora il possente cavaliere, che era tutto armato, gli concesse un anno di tempo, scaduto il quale avrebbe dovuto tornare da lui, con lo stesso vestito verde. Re Artù avrebbe avuto salva la vita solo se avesse trovato la risposta giusta per questa domanda: "Qual è quella cosa che una donna desidera di più al mondo?".
Il re tornò tristemente dai suoi e si confidò solo con Galvano (Gawayn), che era il più bello e cortese fra i cavalieri di Camelot. Galvano gli propose di partire entrambi, viaggiando in direzioni diverse e chiedendo a tutti quelli che avrebbero incontrato lungo il camini la risposta all'enigma. Così fecero, e allo scadere dell'anno si ritrovarono: ciascuno di loro aveva un libro pieno di risposte, e con queste re Artù si avviò all'appuntamento col cavaliere sconosciuto. Quando fu nella foresta il re incontrò una donna bruttissima, madama Raganella (Rag-Nell), che suonando il liuto cavalcava allegramente, montando un palafreno dalla ricca sella. La donna bruttissima disse al re che nei suoi libri non c'era la risposta che poteva salvargli la vita: lei la sapeva, ma l'avrebbe rivelata solo se Galvano avesse acconsentito a sposarla. Allora re Artù portò la richiesta a Galvano, che per amore del suo re accettò cortesemente di sposare madama Raganella.  E lei diede la risposta tanto desiderata:"Noi donne desideriamo, sopra ogni altra cosa, avere sugli uomini sovranità".
Il cavaliere che voleva uccidere re Artù si infuriò, e disse che quella risposta non potevano averla saputa che da sua sorella, che era per l'appunto la donna repellente, ma dovette lasciare libero il re, che fece ritorno a Camelot con Galvano e la sua bruttissima fidanzata. Madama Raganella pretese un matrimonio solenne, e durante il banchetto di nozze mangiò a quattro palmenti, mentre dame e cavalieri piangevano per la triste sorte di Galvano.
La prima notte di nozze, siccome il bel cavaliere le girava le spalle, madama Raganella gli chiese di onorare il talamo nuziale almeno con un bacio. Galvano rispose che avrebbe fatto di più, e quando l'abbracciò sentì una pelle vellutata, e capelli lisci come la seta, mentre si aspettava qualcosa di ispido e rivoltante. Allora accese una torcia e ai suoi occhi apparve la creatura più bella del mondo. Al mattino madama Raganella gli chiese di scegliere: voleva che fosse bella di giorno o di notte? Galvano ci pensò a lungo, e poi disse che lasciava a lei la scelta. Allora madama Raganella lo benedisse e gli svelò che sarebbe stata sempre bella, perché proprio così l'aveva liberata da un incantesimo.
Quando al mattino re Artù andò a vedere se Galvano era sempre vivo, il cavaliere gli disse che non aveva nessuna intenzione di uscire dalla camera nuziale, e gli mostrò la splendida sposa accanto al fuoco.
Il desiderio della donna, di esercitare la propria sovranità non solo su se stessa, ma anche sull'uomo, è la verità che salva il re e che nessuno, né uomo né donna, riesce a dire.
Solo il perfetto cavaliere, il principe sensibile, la accetta, e ottiene la sposa più bella lasciandola libera. Cortesemente rinuncia al potere di regolare la femminile alternanza tra oscurità e splendore.



8. L'insostenibile vaghezza del senso
L'INSOSTENIBILE VAGHEZZA DEL SENSO


If this is magic, let it be an art

Lawful as eating.

(Shakespeare)



Se il mio lettore o la mia lettrice è un po' preoccupat@ dalla sua vaghezza, vorrei rassicurarl@ con le parole che il mago Prospero, nella Tempesta di Shakespeare, dopo aver fatto apparire e dissolvere figure e scenografie fantastiche che appaiono vere, dice al suo interlocutore:

Be cheerful, sir.
Our revels now are ended. These our actors,
As I foretold you, were all spirits, and
Are melted into air, into thin air;
And, like the baseless fabric of this vision,
The cloud-capp'd towers, the gorgeous palaces,
The solemn temples, the great globe itself
Yea, all which it inherit, shall dissolve,
And, like this insubstantial pageant faded,
Leave not a rack behind. We are such stuff
As dreams are made on; and our little life
Is rounded with a sleep.
(A.IV, Sc. 1).

State di buon animo, messere. I nostri svaghi sono finiti. Questi nostri attori, come vi ho già detto, erano tutti degli spiriti, e si sono dissolti in aria, in aria sottile. Così, come il non fondato edifizio di questa visione, si dissolveranno le torri, le cui cime toccano le nubi, i sontuosi palazzi, i solenni templi, lo stesso immenso globo e tutto ciò che esso contiene, e, al pari di questo incorporeo spettacolo svanito, non lasceranno dietro di sé la più piccola traccia. Noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, e la nostra breve vita è circondata da un sonno (Tutte le opere, cit., p. 1207).

Anche il nostro divertimento è finito, Cenerentola, Pelle d'Asino, Cordelia, Zuccaccia, Bianco Viso, Maria 'd Legna, l'Orso, le loro scarpe, gli abiti di cielo e di mare, le streghe, le Grandi Dee, Narciso, Madama Ranocchia e i principi sensibili, che in questo viaggio si sono avvicinati fino a dare nome a passioni, intrighi, conflitti, disillusioni e speranze della nostra vita di ogni giorno, e di ogni notte, possono rientrare in un magazzino della nostra memoria, come i loro libri nello scaffale. Tutte figure di fantasia, che possono apparire reali come gli spiriti sull'isola del mago Prospero, ma che sono destinate a dissolversi, a spandersi nell'aria, nell'aria sottile. La struttura di questa visione non è fondata, è baselesssenza base, e non c'è nulla che possa essere soppesato, misurato, catalogato e ritrovato come gli oggetti che appaiono concreti. Ma attraverso il magistero della parola di Shakespeare, il lettore che si è appena tranquillizzato sulla stabilità, la certezza della sua realtà oggettiva, la perde di colpo, se sa ascoltare, e definitivamente: gli spiriti e i sogni e le fiabe si dissolvono in un batter d'occhio, ma, anche se con tempi diversi, si dissolvono in maniera altrettanto radicale le torri, le cui cime toccano le nubi, i sontuosi palazzi, i solenni templi, lo stesso immenso globo, e tutto ciò che esso contiene.

Al lettore che abbia lasciato risuonare nel suo cuore e nella sua mente le parole di Shakespeare, vorremmo dire che la stabilità, che non è nemmeno negli oggetti che per anni o secoli abbiamo potuto misurare e pesare credendo di pervenire alla certezza, potrebbe trovarsi proprio in quei nuclei vivi di senso umanissimo che la fiaba e il mito continuano a rappresentare, nei libri, nella storia, nei sogni. Così Roger Caillois, che è tra i pochi ad aver viaggiato nelle fiabe senza naufragare tra Scilla e Cariddi, cita e commenta il poeta Ronsard:

Il poeta che profetizzava: Neptune quelquefois de blés sera couvert, / la matière demeure et la forme se perd (Nettuno un giorno di biade sarà coperto / la materia rimane e la forma si perde), s'ingannava. In realtà, la materia evapora e il modello persiste (Ricorrenze nascoste, 1978, p. 61).

2. Una favola che non significa nulla

Teatro e realtà, illusioni e certezze, sogno, incubo e risvegli: torniamo a Shakespeare, ancora a uno dei suoi passi più citati, per trovare una descrizione perfetta della tragedia e dell'annientamento che ogni uomo, anche se non ha le parole per descriverla, sperimenta nei momenti di disperazione, almeno nella sua intimità con se stesso. Siamo alla fine del Macbeth, quando al re viene annunciato che la regina è morta suicida; così parla Macbeth:

She should have died hereafter;
There would have been a time for such a word.
To-morrow, and to-morrow, and to-morrow,
Creeps in this petty pace from day to day
To the last syllable of recorded time,
And all our yesterday have lighted fools
The way to dusty death. Out, out, brief candle!
Life's but a walking shadow, a poor player,
That struts and frets his hour upon the stage,
And then is heard no more; it is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing
(Atto V, Sc. 5).

Avrebbe dovuto morire più tardi / ci sarebbe stato il tempo per una parola come questa. / Domani, e domani, e domani, / striscia a piccoli passi giorno dopo giorno / fino all'ultima sillaba del tempo prescritto, / e tutti i nostri ieri hanno illuminato a dei folli la via / per la polvere della morte. Spegniti, breve candela! / La vita è solo un'ombra che cammina, un povero attore, / che nella sua ora si pavoneggia e si agita sulla scena, / e poi non si sente più; è una favola / narrata da un idiota, piena di rumore e di furia, / che non significa nulla. 

La vita è una favola: l'affermazione è dello stesso ordine di quella che conclude il discorso di Prospero: noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni.
Ho fatto entrare Shakespeare in questo libro, fin dal titolo, grazie all'assoluta libertà di cui può godere ogni lettore, di appropriarsi a suo modo di qualunque cosa sia stata scritta e perciò affidata al successivo gioco della lettura e della scrittura. Che non la esaurisce né la imprigiona, né può, se non apparentemente, travisarla o avvilirla, perché la forza viene alle parole dall'indomabile potenza del desiderio, che si lascia legare soltanto nei versi e nelle vicende ricche di senso. Resta potente e indomabile, perché, pur fissato in una forma, la dilata e la rende sottile come un incantesimo, per diffondersi, oltre che per dissolversi, nell'aria, nell'aria sottile. In grazia di quale attitudine, ricchezza, bisogno umano questo può accadere?
Prima di tentare di descrivere dove mi trovo per la mia ricerca originata da questa domanda, devo dire qualcosa di Macbeth, che ha creduto negli spiriti, creature dell'illusione che possono apparire assolutamente reali. Al ritorno da una battaglia vittoriosa, a buon diritto certo di ricevere premi e onori dal suo re, Macbeth incontra tre streghe, che lo salutano con un titolo che non ha mai avuto, e gli predicono che diverrà re lui stesso. Quando gli viene comunicato che il vecchio re gli ha conferito proprio il titolo col quale lo hanno salutato le streghe, insieme a Lady Macbeth si chiede se debba prestar fede anche alla seconda parte della profezia, e come sia possibile che avvenga. Spinto dalla sua ambizione e dalla sua sposa, Macbeth agisce perché questo destino si attui, per fare della realtà il campo del suo sogno: fa assassinare il re suo ospite e prende il potere. Più che di sogno si tratta di delirio, perché mentre chiamiamo sogno qualcosa che vive entro limiti che non coincidono mai con quelli della realtà del giorno, che condividiamo con gli altri, che sono segnati dalla norma, dalla legge, dal linguaggio comune, possiamo chiamare delirio la sovrapposizione a questa realtà di un piano fantastico, che ha una tale presa adesiva da confondersi totalmente con essa. Le parole di Macbeth che abbiamo citato rappresentano il panorama del soggetto quando la fusione tra delirio e realtà è avvenuta, e l'azione conseguente si è data senza limiti.
A proposito della realtà degli spiriti e delle loro previsioni, ricordiamo che Macbeth, dopo aver ucciso il suo re, e tutti coloro che si frappongono alla realizzazione del suo potere, è perseguitato dai fantasmi, e torna a visitare le streghe. Gli spiriti che esse evocano gli dicono che nessun uomo partorito da donna potrà mai sconfiggerlo, e che il suo regno durerà fino a che la foresta di Birnam non salirà al suo castello.
Alla fine l'esercito che viene a combatterlo sale come un bosco semovente, perché ogni soldato avanza schermandosi con un grosso ramo degli alberi di Birnam. Macbeth non può più svegliarsi dal suo delirio, che attribuisce al demonio:

I pull in resolution, and begin
To doubt th' equivocation of the fiend
That lies like truth.
(Ivi) 

Io batto nella mia risolutezza, e comincio / a dubitare degli equivoci del demonio / che mente come se fosse vero.

Poi, quando il suo avversario gli rivela di non essere stato partorito da donna, perché è stato estratto anzitempo con un taglio da sua madre, prima di affrontarlo in duello e morire, esclama:

And be this juggling fiends no more believ'd
That palter with us in a double sense,
That keep the word of promise to our ear,
And break it to our hope!
(Ivi)

 Nessuno mai più creda a questi demoni illusionisti / che ci menano per il naso in un doppio senso / che mantengono la parola della promessa al nostro orecchio / e la rompono alla nostra speranza!

Ciò che Macbeth non ha capito, e che neppure di fronte alla morte capisce, è che i demoni non sono fuori di lui. Macbeth non comprende la natura simbolica delle parole, e la sua tragedia è preceduta e causata dall'incomprensione per la natura finzionale del linguaggio.
Finzione viene dal latino fingere, a sua volta dal nome fingulus, che significa vasaio. Dare forma al vaso che senza l'attività umana non esiste, alla materia che si lascia plasmare e cuocere per trasformarsi in un contenitore utile agli uomini è un'opera analoga alla formazione del linguaggio, che articola alcuni suoni secondo regole condivise.
La confusione tra la cosa e la lingua, tra la propria tensione verso un oggetto e la natura della relazione che ne può nascere, porta a non considerare, insieme alle regole del linguaggio, che svela e cela, il cui senso non è univoco né definitivo, le regole che gli uomini hanno stabilito e che mantengono per vivere insieme. Nessuna profezia, nessuna promessa, nessuna formula magica, vale indipendentemente dal contesto in cui viene offerta, ricevuta, usata. Confondere il prodotto, la forma manifesta della formula o della poesia, con la realtà, o con la verità assoluta, significa dimenticare che dipendono dalle relazioni che gli uomini sono riusciti a costruire fra loro, trasformandosi quotidianamente nell'ambito di queste stesse relazioni.


3. Storie false che sembrano vere

Arte e artificiale hanno la stessa matrice, anche se il secondo termine ha oggi un'accezione negativa, che lo contrappone a naturale: ma la cultura, le leggi dell'uomo, i suoi racconti e le sue parole, senza l'opera dell'uomo non esistono. Scrive Roger Caillois:

Ecco dunque dove sta l'essenza dell'arte. Un'avventura sulla quale, fino all'ultimo, regna un'incertezza pericolosa e salutare. Da questa singolare ipoteca sono esenti la linfa e l'ingranaggio, che si assomigliano nella stessa certezza dei loro prodotti e nella stessa cecità della loro operazione (Babele, 1948, p. 70).

Il campo dell'uomo è la sua cultura, nella quale si muove in rapporto con la sua stessa vita interiore, e con gli altri uomini, sia suoi contemporanei, che passati e futuri. La cultura, che si trasmette e si trasforma quotidianamente attraverso il linguaggio, può essere immaginata come un'estensione illimitata dell'addestramento che l'animale riceve dal genitore e che trasmette ai suoi piccoli; essa lega tutti gli uomini con un vincolo forte come quello che tiene insieme una famiglia di animali, ma si ramifica in una complessità  infinita. Vi sono storie che hanno un significato, e quindi un valore, per tanti secoli e sotto tutti i cieli, in forme diverse eppure strettamente apparentate. Abbiamo scelto di analizzare Cenerentola, che viene narrata da oltre mille anni, in tutto il mondo, ma vi sono innumerevoli fiabe e miti egualmente pregnanti.
In greco mìthos significava sia parola che racconto, e il racconto, nelle sue innumerevoli forme, è la casa della parola. Il greco Esiodo, ottocento anni prima di Cristo, ci ha raccontato nella Teogonia delle prime generazioni degli dei. Nel suo testo, mitico per eccellenza, ci è dato osservare l'unità di racconto e parola: la nascita delle divinità Gaia (la Terra), Urano (il Cielo), la Notte e l'Oceano, è l'origine delle realtà fisiche che personificano, e allo stesso tempo dei nomi che le designano da allora, rimasti in vigore, in molti casi, fino al nostro tempo. Esiodo si presenta a noi come un pastore, intento alla cura del suo gregge, che le Muse richiamano al loro servizio, offrendogli il canto: questo è allo stesso tempo il dono della poesia e del suo contenuto, le storie da celebrare con il canto. Le Muse sono figlie della dea Memoria (Mnemosine) e del sovrano degli dei olimpici, Zeus, che ha fissato limiti e domini per gli dei e per gli uomini. I limiti di cui Zeus è fondatore e tutore rappresentano la legge, il principio che mantiene la continuità nella vita degli esseri umani, che per i greci era necessario per la stabilità degli stessi dei olimpici.
Quando le nove Muse, che sono la personificazione di tutte le arti, si rivolgono a Esiodo, cominciano con queste parole:

poimeneV agrauloi, kak' elegcea, gastereV oion,
idmen yeudea polla legein etumoisin omoia,
idmen d', eut' eqelwmen, alhqea ghrusasqai
(vv. 26-28)

Pastori, campagnoli, mala genia, solo pancia / sappiamo raccontare molte storie false che sembrano vere / ma sappiamo anche, quando vogliamo, far sentire le storie vere.

Le Muse definiscono la condizione di Esiodo come limitata e chiusa nella sua corporeità, nient'altro che ventre: rappresentazione di un senso della vita che si considera solo materia, insieme oggettivo di dati, di eventi misurabili e descrivibili come pecore da vendere o erba da tagliare. A questa definizione dell'essere umano, cieco e limitato nella sua convinzione che si possa parlare senza fare i conti con la natura finzionale del linguaggio, segue immediatamente l'affermazione delle Muse, che come tutta l'arte significano proprio questa natura finzionale, che si gioca nella parola, nel racconto, nel simbolo. Chi garantisce a Esiodo che le nove fanciulle gli racconteranno storie vere, visto che loro stesse lo hanno avvertito che anche quando raccontano storie false le fanno apparire vere? Non è per la certezza sulla verità della storia che Esiodo si disinteressa da quel momento di tutto quello che non è poesia, mito, canto: è perché le Muse gli hanno donato la comprensione della natura del linguaggio.
Chi credesse che la cosa, posta in questi termini da quasi duemila anni, sia chiara, farebbe un errore tale da impedirgli la comprensione non solo delle storie, ma del senso stesso della vita umana. Ciò che vale è il gioco degli affetti tra gli uomini, che proprio mediante il carattere finzionale del linguaggio possono rappresentare la loro realtà intima e quella degli altri, costruendo relazioni e apprendendo dall'esperienza. Tra la sua natura personale, unica e irrepetibile, e i suoi legami con gli altri,  l'uomo può crescere solo se rafforza la prima arricchendo allo stesso tempo le articolazioni con questi legami. Scrive Wilhelm von Humboldt:

...Lottando profondamente nel suo intimo per tendere verso quell'unità e totalità, l'uomo vorrebbe trascendere i limiti della sua individualità, ma poiché, simile al gigante che solo riceve la sua forza dal contatto con la madre terra, ha la sua potenza soltanto in essa, è costretto ad accrescere proprio la sua individualità in questa superiore lotta. Qui, in modo davvero meraviglioso, gli viene ora in aiuto il linguaggio, che unisce anche quando isola e che, nella veste della più individuale espressione, racchiude la possibilità di universale intelligenza. Il singolo, dove, quando e come vive, è un frammento staccato di tutta la sua stirpe, e il linguaggio dimostra e mantiene questo eterno nesso che guida il destino del singolo e la storia del mondo (Über die Verschiedenbeiten des menschlichen Sprachbaues, cit. da Ernst Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, 1923; vol. I, p. 118).

Il racconto è la casa del linguaggio, e le fiabe e i miti, fra queste case, sono le più resistenti nel tempo e le più abitate sotto ogni cielo. Come il sogno notturno è indispensabile, col suo gioco solo in apparenza arbitrario, al nostro equilibrio psichico, così il racconto collettivo, quello nel quale ogni essere umano può rispecchiarsi, per arricchire la sua consapevolezza di sé, di ciò che vale nella sua intimità, mantiene una trama profonda che consente di rappresentare, con la massima chiarezza possibile, i bisogni e i desideri che accomunano tutti gli esseri umani. Studiarli significa lavorare per comprendere la cultura dell'uomo, che è la sua specifica natura.
Ritengo che la fiaba rappresenti la dimensione individuale della psiche, mentre il mito ne rappresenta la dimensione gruppale. Nelle fiabe è presente la maturazione psicologica in relazione alle figure familiari e la conseguente realizzazione del desiderio dell'unione felice con una persona dell'altro sesso, che implica l'uscita dalla situazione endogamica di partenza. Al centro del mito si trova invece il gruppo, più vasto della famiglia, sia clan, tribù o popolo, e ogni mito riguarda una trasformazione irreversibile considerata come un passaggio della civiltà, che caratterizza la storia del soggetto ma anche quella della sua comunità, intesa spesso come l'umanità intera. In questa dimensione gruppale il mito costituisce una figura di rispecchiamento per il gruppo umano, più o meno vasto: ma allo stesso tempo questa figura di rispecchiamento riflette la dimensione gruppale dell'individuo, il suo essere strutturato come un gruppo formato dalle sue figure genitoriali, o dai suoi oggetti interni buoni e cattivi, dalle parti in crescita intrecciate a quelle narcisistiche e conservatrici, ecc. Si veda a questo proposito W.R. Bion, Esperienze nei gruppi, 1971.

Da pastore Esiodo ignorava di aver a che fare con simboli, credendo che la sua pancia e le sue pecore fossero la sola vera realtà, ma le Muse gli impongono di seguirle, e gli conferiscono il dono più bello, loro che hanno lingue sciolte, e parole dolci come il miele. Imposizione e dono, il mito, come parola e come racconto, rendono meravigliosamente e irrimediabilmente incerta la comunicazione tra uomini. Leggiamo ancora von Humboldt:

Gli uomini s'intendono fra loro non per il fatto che si scambino realmente i simboli delle cose, e neppure per il fatto che si determinino l'un l'altro nel produrre esattamente e perfettamente lo stesso concetto, ma per il fatto che reciprocamente toccano l'uno nell'altro lo stesso anello della catena delle loro rappresentazioni sensibili e delle loro produzioni concettuali, battono gli stessi tasti del loro strumento spirituale, e in conseguenza di ciò scaturiscono allora in ciascuno concetti corrispondenti, ma che non sono gli stessi. ...Se ...in questa maniera vengono toccati l'anello della catena, il tasto dello strumento, vibra allora tutto il complesso, e ciò che scaturisce dall'anima come concetto si trova in accordo con tutto quello che circonda il singolo anello fino alla più remota lontananza (Ivi, p. 122).

Arrivano fino a noi, le parole imposte e donate a Esiodo dalle Muse, che facevano risuonare la terra coi loro passi leggeri quando si recavano dal padre Zeus, e colmavano la notte di canti danzando avvolte nella nebbia:

                             ....... o d'olbioV, on tina Mousai
filwntai: glukerh oi apo stomatoV reei audh.
ei gar tiV kai penqoV ecwn neokhdei qumw
azhtai kradihn akachmenoV, autar aoidoV
Mousawn qerapwn kleea proterwn anqrwpwn
umnhsh makaraV te qeouV, oi Olumpon ecousin,
aiy' o ge dusfrosunewn epilhqetai, oude ti khdewn
memnhtai: tacewV de paretrape dwra qeawn.
Cairete, tekna DioV, dote d' imeroessan aoidhn.
kleiete d' aqanatwn ieron genoV aien eontwn,
oi GhV t' exegenonto kai Ouranou asteroentoV,
NuktoV te dwferhV, ouV q' almuroV etrefe PontoV
........(vv. 96-107) 

Felice chi è amato dalle Muse: / dolcemente dalla sua bocca scorre la voce, / e se qualcuno ha un dolore che gli opprime l'anima, / e gli dissecca il cuore, appena il poeta, alunno delle Muse, / canta lo splendore dei primi uomini e degli dei beati dell'Olimpo, / si dissolve la sua angoscia, passa qualunque dolore: / in un istante il dono delle Muse divine ha allontanato la pena; / voi, figlie benedette di Zeus, donatemi il bellissimo canto, / cantate la gloria della nascita sacra degli immortali, / generati dalla Terra Gaia e dal Cielo Urano stellato, / narrate della Notte tenebrosa, di chi nutrì l'Oceano salato...



4. Far credito alla storia dove sembra impossibile

La gioia e la disperazione, lo stallo e la trasformazione, riconoscersi o perdersi, l'incantesimo che fa diventare belli o brutti, non dipendono dalla natura illusoria del linguaggio, che Macbeth attribuiva ai demoni e alle streghe. La trasformazione si manifesta in una trama che sembra la stessa di una storia alla quale manca il lieto fine, come abbiamo visto nel capitolo VI, quando i protagonisti della fiaba di Bianco viso, anziché salire al trono e vivere per sempre felici e contenti, sono accomunati dalla morte prematura e violenta.
Noi non sappiamo nulla delle ragioni segrete di questa trama, tranne un punto che riguarda la posizione del soggetto: i protagonisti delle fiabe a lieto fine sono sempre pronti ad ascoltare, a chiedere aiuto, a offrirlo, a unirsi a qualcuno in un tratto del loro cammino. Questo fa una differenza essenziale, e appare come una disponibilità a giocare il proprio desiderio fino in fondo, che si articola e si intreccia con tutti gli elementi, di qualunque segno, che si presentano lungo la via. Le fanciulle delle fiabe non sono buone in senso moralistico: c'è la Bella Caterina di Nerucci, che vedendo i gattini maldestri nella cucina delle fate si mette a fare le faccende per loro, ma c'è anche la Cenerentola di Basile che rompe l'osso del collo alla matrigna. La Bella Caterina nella sua disperazione viene interrogata da un vecchio lungo la via, e gli narra la sua pena: quando il vecchio le chiede di pettinarla lei lo fa con cura, e quando lui le chiede cosa gli ha trovato fra i capelli, che sono pieni di pidocchi, lei risponde che ha visto oro e perle"E oro e perle avrai", le annuncia il vecchio, che da bisognoso diventa aiutante (cit., p. 40). Ma con la stessa leggerezza, per avere il sangue necessario a completare l'unguento che  potrà salvare dalla morte il suo principe, una fanciulla di Basile non esita a dare una bastonata alla volpe parlante che l'ha accompagnata per praticarle un bel salasso. Non comprende la fiaba chi legge in senso moralistico lo stile d'azione dei suoi protagonisti, guidati da un senso nella storia che si comprende solo riconoscendone i simboli. E i simboli sono articolazioni indispensabili della realtà psichica, non sostegni della morale, che compete solo alla coscienza.
I protagonisti delle fiabe quando hanno una pianta la coltivano, se devono servire lo fanno senza lamentarsi, sanno rinunciare a un tesoro inestimabile appena emerso da una caverna sotterranea senza esitare, e se è necessario uccidono l'animale parlante che li accompagna. Essi rappresentano l'azione che si dà seguendo il proprio desiderio, ma questa azione è caratterizzata da bordi sfrangiati, aperti al contatto con tutto ciò che si presenta, che comparendo nel racconto riguarda il soggetto. La loro traiettoria è diretta verso la meta, ma si struttura secondo continue deviazioni, percorsi imprevedibili, spirali, labirinti. Essi scelgono un sentiero come il fratello più piccolo di una fiaba antica, seguendo il canto dell' usignolo, o come il principe Ivan, che abbiamo già ricordato, che lanciò un gomitolo e ne seguì il filo. 
Dubitare della veridicità di ciò che vediamo e comprendiamo, vacillare nel momento stesso in cui sentiamo di pervenire a una certezza, mantenerci fedeli a una persona o a una ricerca ascoltando la voce che a tratti ci dice che non ne vale la pena, convincente come le ingannevoli voci delle streghe: questo caratterizza la posizione del soggetto che si trasforma nell'esperienza. Solo in questo percorso il soggetto sperimenta e arricchisce il Wirklichkeitsgefül, il sentimento della verità, di cui parla Freud, di regola ricordato nella nostra lingua come senso della realtà. Il sentimento della verità è una posizione del soggetto il cui desiderio ha i bordi aperti come quello dei protagonisti di fiaba, del soggetto la cui esperienza della propria soggettività cresce come la ricchezza delle sue relazioni con gli altri. Il senso di realtà spesso è equivocato con la convinzione di conoscere, ormai, la vera realtà, perché non ci si illude più sulla sua capacità di eludere e mettere in scacco il desiderio. Mentre il sentimento della verità non può che essere nella volontaria e involontaria trasformazione del soggetto che apprende dall'esperienza.
Andiamo a trovare in Shakespeare le parole per descrivere poeticamente questo concetto, che richiama l'incertezza, la vaghezza del senso della parola e del racconto, ma non la attribuisce al demone ingannatore. Nel Pericle, il protagonista maschile affida alle acque la bara della giovane sposa morta di parto, e consegna la figlia neonata, Marina, a una coppia amica. Dopo quindici o sedici anni torna a prenderla, ma i genitori ai quali l'ha affidata piangendo gli mostrano la sua tomba. Allora Pericle giura che vivrà per sempre nel lutto, senza più radersi, né lavarsi, né vestirsi d'altro che di sacco. Marina in realtà è stata rapita dai pirati e venduta alla tenutaria del bordello di Mitilene: grazie alla sua straordinaria capacità di raccontare la storia della propria vita, gli aspiranti clienti si impietosiscono, e le danno del denaro senza farla prostituire. In un giorno di festa approda a Mitilene la nave di Pericle, che giace sul letto in una tenda. Il governatore manda da lui Marina perché lo distolga dalla disperazione con i suoi racconti pieni di grazia, e quando lei gli dice che la storia della propria vita è forse ancora più dolorosa di quella di lui, Pericle la prega di raccontarla, e Marina esprime la sua esitazione: 

If I should tell my history, it would seem
like lies, disdain'd in the reporting
(A. V, Sc. 1).

 Se narrassi la mia storia, sembrerebbe / una bugia, che si disprezza appena è raccontata.

Marina non poteva avere la stessa fiducia delle Muse nell'arte del racconto, ma il padre le dice:

                             I will believe thee,
And make my senses credit thy relation
To points that seem impossible; for thou lookest
like one I lov'd indeed
(Ivi).

Ti credo, e costringerò i miei sensi a credere al tuo racconto anche dove appaia inverosimile, perché tu somigli a una che veramente amai (Tutte le opere, cit., p. 1110). 

Pericle, che ha pianto sulla sua tomba, non potrebbe credere al suo racconto, ma vuole darle darà credito proprio dove i suoi sensi lo troveranno impossibile, invece di giudicarlo una storia falsa. Marina somiglia alla madre, la sposa che Pericle ha composto nella bara: è il suo desiderio per quell'amore che, riconosciuto, gli consente di affrontare l'insostenibile vaghezza del senso. 
Mano a mano che Marina narra la sua vita, Pericle comincia a credere che si tratti di sua figlia, ma la differenza tra ciò che ha creduto vero e reale fino a quel punto e le parole di lei è tale che, come temendo di subire un inganno insopportabile, a un certo punto esclama:     

O, stop there a little!
[Aside] This is the rarest dream that e'er dull sleep
Did mock sad fools withal. This cannot be:
My daughter's buried. - Well, where were you bred?
I'll hear you more, to th' bottom of your story,
And never interrupt you
(Ivi).

 Oh, fermatevi un momento. [A parte] Questo è il sogno più strano con cui il pesante sonno abbia mai beffato un triste pazzo; non può essere. Mia figlia è sepolta. Ebbene, dove foste allevata? Vi starò ancora a sentire fino al fondo della vostra storia, e non v'interromperò mai. (Ivi)


Un racconto a cui prestare credito proprio dove sembra impossibile, da ascoltare senza interromperlo fino alla fine: questa è la condizione di tolleranza della vaghezza del senso che sola permette la trasformazione. Così i nostri sogni notturni si presentano insensati, come se demoni o dei li mandassero per beffarci o per soccorrerci, fino a che la nostra coscienza non smette di combattere il carattere finzionale, artificiale o artistico, del linguaggio e del gioco delle figure. La natura artificiale, incerta, mai definitiva, del linguaggio, è il carattere della realtà psichica dell'umano, e del suo mondo stesso come campo di esperienza e di conoscenza. Che viene travisata da chi pretende di descriverla come un ordine assoluto, pesabile e misurabile in ogni parte. Ma la comprensione di questa natura è altrettanto impossibile per chi creda che esista una chiave simbolica, allegorica, iniziatica, entrando in possesso della quale il mistero possa svelarsi. Occorre tollerare la vaghezza, l'erranza, l'incertezza, ma non riprodurle, come occorre cercare punti di chiarezza senza pretendere di fissarli per sempre.




5. Una magia lecita come mangiare

Quando ho intrapreso lo studio psicoanalitico della fiaba e del mito, ho seguito, come un filo, l'intuizione di una verità nel racconto e sul racconto. La mia meta, fornire una buona descrizione di questa verità evidente e inafferabile, non si è allontanata, ma io non mi sono avvicinata, pur camminando, e quello che ho scritto è semplicemente la descrizione di qualche tratto del mio errare. Ha richiamato dell'attenzione, ma mi piacerebbe che avesse suscitato in qualche lettore, per le risonanze imprevedibili del linguaggio, il desiderio di mettersi in cammino per conto proprio.
Concludendo questo saggio, non posso fare a meno di esprimere, scusandomi per la loro approssimazione, qualche parola sulla meta, sull'intuizione che traccia il sentiero della mia ricerca.
C'è nelle fiabe una geometria rigorosa, possibile da evocare, da commentare senza tradirla, ma impossibile da descrivere.
Mi è parso di trovare in certe nuove teorizzazioni delle scienze dure, come nella teoria delle catastrofi del matematico René Thom, dei modelli di descrizione preziosi, ma che non posso utilizzare, non essendo il caso di affrontare le difficoltà e le aporie di questa ricerca con temi e concetti embricati a terreni di lavoro, come la matematica, sui quali non so muovere un passo. Ma è qualcosa che secondo me René Thom ha in mente, ad esempio quando annota:

...La geometria euclidea classica si può considerare come una magia: al prezzo di una distorsione minima delle apparenze (il punto senza estensione, la retta senza spessore...), il linguaggio puramente formale della geometria descrive adeguatamente la realtà spaziale. In questo senso, si potrebbe dire che la geometria è una magia che ha successo. Mi piacerebbe enunciare la reciproca: ogni magia, nella misura in cui ha successo, non è necessariamente una geometria? (René Thom, Stabilità strutturale e morfogenesi, 1972, p. 15, nota 4)

Ho tentato diverse volte, con risultati sempre deludenti, di contribuire a questo enunciato a proposito della magia della fiaba, accostando certi elementi della teoria delle catastrofi con le azioni della fiaba, partendo dalle funzioni della morfologia rivisitate con le teorie psicoanalitiche. René Thom accosta alle catastrofi elementari, rappresentate da una funzione e da una figura geometrica, un'interpretazione spaziale, ossia un sostantivo, e un'interpretazione temporale, un verbo, nella sua accezione costruttiva e distruttiva. Questa doppia connotazione temporale, o doppia azione, collegata alla catastrofe come cambiamento di stato, dà conto dell'ambivalenza che caratterizza l'inconscio, richiamando insieme gli archetipi junghiani, con le loro polarità opposte e complementari (vedi la Tavola delle catastrofi elementari, in René Thom, Modelli matematici della morfogenesi, 1980, p. 200-201). Per suggerire qualche possibile accostamento, si possono osservare, fra le catastrofi elementari, e le relative morfologie archetipiche proposte da Thom, la farfalla e il fungo.
La farfalla (centro organizzatore: V = x6dispiegamento universale: V = x6+ux4+vx3+wx2+tx), ha come sostantivi la tasca la squama, e come verbi
desquamarsi, esfoliarsi, per la valenza distruttiva, donare, ricevere, per la valenza costruttiva. Non è difficile pensare alla XIV funzione di Propp, designata dalla lettera Z, relativa alla fornitura, al conseguimento del mezzo magico (vedi: Vladimir Ja. Propp, 1966; p. 49).
Il fungo, ombelico parabolico, (centro organizzatore: V = x2y + y4; dispiegamento universale: V = x2y + y4 + wx2 + ty2 - ux - vy), ha come sostantivi il getto (d'acqua), il fungo, la bocca, e come  verbi infrangersi, espellere, forare, tagliare per la valenza distruttiva, mentre ha legare, aprire, chiudere (la bocca) per la valenza cotruttiva. A questa catastrofe possiamo accostare le due funzioni accoppiate XXV e XXVI (A), relative alla proposta o imposizione di un compito difficile, e al suo adempimento (Ivi, pp. 65-66).
Nell'ambito di scienze che fino a pochi decenni fa operavano fidando di dare descrizioni certe di fenomeni ripetibili e misurabili, sono entrati oggetti così complessi, come i quanti o gli infiniti, che impongono teorizzazioni nuove, e un nuovo linguaggio, che consenta l'elaborazione di nuovi modelli. Le discipline che si avvalgono del linguaggio comune a tutti, e non hanno, né possono avere, un lessico specialistico noto solo ai ricercatori, e condiviso da tutti loro, possono descrivere oggetti complessi, come la realtà psichica, ma non riescono a fondare un'epistemologia grazie alla quale sia possibile costruire un linguaggio specialistico che consenta loro di intendersi su qualcosa senza equivoci, di trovarsi d'accordo e di dissentire senza che ogni ulteriore teorizzazione implichi un'apparente distruzione e ricostruzione dell'edificio.
Occorrerebbe il concorso di molti ricercatori per sperare di procedere verso un'epistemologia rigorosa, che però non implichi un linguaggio specialistico privo della vaghezza del linguaggio verbale comune a tutti: ammesso che ne sia mai esistito uno, se non nell'autorevole e autoritaria affermazione di certi scienziati, questo lessico non avrebbe infatti alcuna probabilità di far avanzare la comprensione di oggetti complessi come la fiaba o il mito, che intendiamo come riflessi dell'infinita e vitale complessità della realtà psichica.
Ciò che si dovrebbe tentare di descrivere sono le costanti che in questa complessità è possibile cogliere: riuscire a dar conto della ragione rigorosa che rende possibile far diagnosi interpretando un sogno o un lapsus, la cui descrizione può risultare arida o apparire romanzesca, o addirittura una mistificazione. Descrivere come una geometria della mente, certo a più di tre o quattro dimensioni, come le costanti di un'equilibrio psichico e della sua perdita, come normalità e patologia siano pensabili secondo la diversa disposizione e proporzione delle stesse figure. Descrivere come una minima variazione permetta in certi momenti a un essere umano di riprendere il suo cammino esprimendo la sua unicità, o lo abbatta, chiudendolo nella follia.
Per ora le descrizioni migliori restano l'arte del racconto e della poesia. Come Pericle principe di Tiro non poteva credere alle sue orecchie, il re del Racconto d'inverno non può credere ai suoi occhi, quando, certo che la moglie è morta da molto tempo, e ammirandone una statua, la vede animarsi. Così esprime il desiderio che marca la sospensione della differenza tra inanimato e animato, tra morto e vivo, quel confine tra possibile e impossibile che costituisce l'insopportabile vaghezza nell'esperienza di ogni uomo:

If this is magic, let it be an art
Lawful as eating
(A. V, Sc. 3).

Se questa è magia, vorrei che fosse un'arte, / lecita come mangiare.

Nella realtà psichica, rappresentata dai sogni notturni, dalle fiabe e dai miti, possiamo riconoscere questa potenza, apparentemente magica, della trasformazione. Ciò accade nell'esperienza di diagnosi e cura dello psicoanalista, e se descrivere come accade è difficile, non per questo è consentito rinunciarvi. Anche se non potesse mai portare a una descrizione che renda conto in maniera chiara e soddisfacente del processo al quale è dedicata, si potrebbe ricordare René Thom quando alla fine della sua opera che non vince la vaghezza scrive:

Una gran parte delle mie affermazioni riguardano pura speculazione; si potrà senza dubbio tacciarle di fantasticherie... Accetto tale qualifica; la fantasticheria non è forse la catastrofe virtuale con cui si inizia la conoscenza? Nel momento in cui tanti studiosi calcolano, in qualche parte del mondo, non è auspicabile che qualcuno, che lo può, sogni? (Thom, 1972, cit., pp. 366-367)





6. L'ultima scarpa

Chi pensa o sente che questa potenza opera secondo leggi geometriche, anche se non sa ancora descriverle, trova nella variegata costanza delle fiabe e dei miti una terra promettente. Anche quando coltivandola non si ottiene il frutto sperato, il raccolto non delude, e la vista è sublime. Si vola nel tempo e nello spazio, come nella propria intimità, per comprendere quanto sia vasta, ampia e articolata la realtà di ogni essere umano. Il volo è permesso perché le regole del gioco qui possono modificarsi come nel sogno, obbedendo a una costanza segreta.
Torniamo al tema del libro, a Cenerentola come figura della crescita femminile, che si dilata, si rappresenta in mille e una forma, e si sottrae al pensiero dell'uomo come della donna, perché incarnando e significando la vita che fugge, si occulta, e torna a fiorire, impone, perché il pensiero non arretri terrorizzato, di accogliere la vaghezza che allude al limite tra notte e giorno, vita e morte, inconscio e coscienza. Il sole è così potente e generoso che illumina e scalda persino, come dice il Mahabharata, i suoi bestemmiatori, ma si perde nella notte: se non fosse per quella luce lieve della luna che rischiara le tenebre col suo riflesso.
Pensiamo alla somma dea Iside, che alla morte dello sposo fratello, Osiride, si traveste e si nasconde nel lutto, come Cenerentola, la sua piccola e grande parente di fiaba. Occultandosi si mette in cammino per ricercare il chiarore del dio Osiride, il sole, fino a quando non ne ricompone il corpo smembrato e perduto perché possa rinascere.
Le divinità che attraversano il buio, la notte, la morte, hanno un'irregolarità misteriosa, appartengono a un'area figurale dove possiamo riconoscere Cenerentola, Pelle d'Asino, Cordelia, con la loro alternanza di bellezza e bruttezza, la dea Iside che come lei si traveste nel lutto, Demetra che si occulta avendo perso la figlia, Persefone. Dove possiamo riconoscere divinità maschili ma non solari, contrassegnate dallo smembramento e dall'estasi, come Dioniso. O come il dio fabbro Efesto, zoppicante da entrambi i lati: a lui e ai Ciclopi ai quali è legato con molteplici parentele gli dei devono la potenza del fuoco che si accende nel giorno come nella notte. Il fulmine è l'arma che consente a Zeus di regnare. Alle divinità che possono attraversare o abitare le tenebre senza smarrirsi, proprio grazie al loro movimento non diretto, ma vago, apparentemente incerto, errante, come il fabbro Efesto che zoppica da entrambi i lati, o come Prometeo il cui pensiero procede per angoli, serpeggiando (ankulomètes), gli uomini devono la potenza del fuoco, per illuminare le tenebre e forgiare i metalli.
Il lavoro del fingulus, del vasaio, che finge, dà forma con arte alla materia, e la modella secondo le necessità dell'uomo, rappresenta la cultura stessa, che vince le tenebre che ogni sera sconfiggono, irrimediabilmente, la luce del sole.
Nella dimora del Nonno Tempo del Cunto de li cunti solo il simbolo, nello stemma sulla porta, non è logorato, e la fanciulla quando entra toglie i contrappesi all'orologio e lo ferma: così il divoratore deve rivelarle come potranno tornare umani i suoi sette fratelli colombini. Una gola smisurata come la voracità del Nonno Tempo della fiaba è quella del lupo Fenris, che in uno scenario di distruzione apocalittica salirà dalle tenebre per ingoiare tutto: se lo facesse il mondo non potrebbe rinascere dalle sue ceneri. Leggiamo la storia norrena scritta quasi mille anni fa:

Il lupo Fenris giungerà con le fauci spalancate, la mascella superiore puntata contro il cielo e l'inferiore contro la terra, e le spalancherebbe ancor di più se ci fosse spazio bastante. Fuoco gli uscirà dagli occhi e dalle nari. Il lupo ingoierà Odin, questa sarà la sua morte. Ma subito dopo Vidar si volgerà e pianterà un piede sulla mascella del lupo - questo piede è calzato di una scarpa il cui materiale è stato raccolto attraverso tutti i tempi: sono i ritagli di cuoio che gli uomini taglian via dalle scarpe per l'alluce e per il tacco, perciò colui che vuol esser d'aiuto agli Asi deve gettar via questi ritagli. Con una mano egli afferra l'altra mascella del lupo e gli lacera le fauci, e questa sarà la morte del lupo (Snorri Sturlusen, Edda, 1975; p. 119).
Dopo che Odino è stato divorato dal lupo si fa avanti un dio la cui spinta parte dal passo, dal piede, che trae la sua presa irresistibile dalla calzatura: gli esseri umani che vogliono aiutare Vidar a salvare il mondo non devono riutilizzare i pezzetti di cuoio che tolgono in corrispondenza dell'alluce e del tallone. Ciò che gli uomini nel loro lavoro scartano, rinunciando a riutilizzarlo, è il mezzo della salvezza di fronte alla gola smisurata.
Freud ha dato forma alla psicoanalisi analizzando il sogno, fino a quel punto considerato insignificante, si è occupato di sintomi come la paralisi isterica, che la medicina scartava perché non avevano un fondamento verificabile. Ha scritto sul lapsus, che nel linguaggio è la parte scartata, avendo intuito che con i mezzi della scienza che domina la realtà fissando certezze e ignorando le cose insopportabilmente vaghe non avrebbe proceduto nella comprensione e nella cura del dolore dei suoi pazienti nervosi. Ciò che fino a quel momento era scartato, inconscio, conteneva il segreto per una nuova forma di cura.
La psicoanalisi ha descritto in maniera definitiva la vaghezza del confine tra normalità e patologia. Una verità presente da tempi lontani, ma solo in forma iniziatica: gli alchimisti affermavano che la pietra filosofale, capace di trasformare in oro tutti i metalli, ha un aspetto vile e comune, e si trova nello sterco: in stercore invenitur.
La luna è nella cenere, per chi abbia la pazienza e l'arte di cercarla.




Skjortan är ren och blicken blank;
blicken är blank av kärlekskval
och osammanhängande är hans tal.
Cornelis Vreeswijk

ATU-510 is the category for tales of the ‘Persecuted Heroine’ type, containing the subtype 510a (‘Cinderella’ stories), as well as the subtype 510b (tales of ‘Unnatural Love’) which this article concerns. A brief overview of the common plot features of taletype ATU-510b is as follows. ... She is discovered by a prince or his huntsmen in a forest and becomes a cook’s assistant or scullery maid. As in many ‘Cinderella’ tales, the girl sheds her dirty clothing and attends a ball in one of her beautiful gowns. She captivates the prince but does not reveal her identity. In some versions, the prince becomes ill with love for her, and he can only be cured by food prepared by her hand, into which she slips a ring he had given her as a gift. In other versions, he is left with the shoe that fits no foot but hers, or else she is revealed through a tear in her animal pelt clothing which lets the prince glimpse a magnificent dress underneath. 

This article considers one of the final key actions in the story, wherein the heroine prepares food for the prince, proving she is worthy to marry him through a demonstration of a domestic skill unbefitting of her original social status. It will situate each item cooked or Poulet au Gratin, Galettes, and Brotsuppe baked by the princess within its original historical context in order to better understand the literary implications of the use of particular foods. As there are a great many variants of 510b originating in different regions and eras, this paper only discusses three versions, chosen due to their possession of the cooking motif and their popularity in their own times: 1) Giambattista Basile’s ‘L’orsa’ or ‘The Female Bear’, 2) Charles Perrault’s ‘Peau d’Âne’ or ‘Donkey-Skin’, and 3) the Grimm Brothers’ ‘Allerleirauh’ or ‘All-Kinds-of-Fur’.


Course I: Poulet au Gratin

Seeking out the oldest recorded versions of a tale will help to uncover some of the early food motifs and a food motifs’ potential persistence, prolonged usage, or even omission throughout variants. As Zipes asserts in Breaking the Magic Spell, both folkloric magic tales and literary fairy tales are rooted in ‘the experience and fantasy of primitive peoples who cultivated the tale in an oral tradition.’11 Therefore, the motifs and details within the story are prone to change and adaptation as the story travels from storyteller to storyteller. But tales are also liable to move from oral to written form, and then back again from written to oral form. For example, literary fairy tales and magic folktales are occasionally distilled from or related to well-known older literary texts, such as the medieval chivalric romances: 

The corpus of “classic” fairy tales owes much to medieval storytelling, since the former absorbed the latter both directly (in the conversion of tales preserved in manuscripts into collections in folk-books) and indirectly (in transmission in and out of texts through many hundreds of years).

Unfortunately, it is rare that we know the informative oral folk sources of fairy tales, but in many cases the parallel plots and episodes indicate possible relationships between the older literary texts, oral magic tales, and literary fairy tales.

However, while early versions are characteristic of 510b through the discovery of the heroine by a second prince or king, they do not contain the episode in which the heroine becomes a scullery maid or other domestic servant and serves the prince the food that she has prepared. Another early version called ‘Doralice’, contained in Giovanni Straparola’s The Facetious Nights of Straparola, is without the food preparation element. In this version, the heroine, Doralice, secretly tidies, beautifies, and scents the prince’s bedroom, a domestic process which stands in place of the cooking action in later versions and yet which still gives value to the upkeep of a household. However, the absence of the culinary episode in the previous versions does not necessarily mean that the residue of medieval tales is not still present in later versions and informing the choices made by subsequent authors. 

The literary fairy tale, as distinct from the folktale, allows for an accurate positioning of a variant in time and place – the known publication and edition date, native country, or country of residence of the author gives the researcher a secure hold from which to research the tale’s historical context. We can hope that the texts from original published versions are authentic representations of their time periods and embody cultural signifiers (such as food) accurately, to the author’s experience. Unfortunately, translators do not always accurately convey an author’s original text, and may censor the text, alter the text artistically, or mistranslate the text based on a mistake or semantic (and culinary) drift. Translators may also choose to represent a food motif as something similar from their own culture, rather than retaining an exact motif which might be a foreign or unknown food for their readership. The insight given by examining the original context for each variant is fundamental. Even by looking at a superficial reading (that is, seeing the food as only a material object that is eaten and not as a deeper symbol or metaphor), one can gain historical information from a literary fairy tale. Once a story is situated in its original place and time, the reader can then draw from those scenes an understanding of food motifs which combines their own contemporary interpretation with one which is informed by the political and cultural context of the variant’s origin. 

Zipes reminds us that what is added, changed, or missing in a new variant is equally important to understanding the past and future versions, because in each new stage of civilization, in each new historical epoch, the symbols and configurations of the tales were endowed with new meaning, transformed, or eliminated in reaction to the needs and conflicts of the people within the social order.

The influence of the surrounding society will always remain embedded within the text, and will layer upon itself as new variants emerge. Basile’s ‘L’orsa’ was published posthumously in 1634 and contained in the collection Lo cunto de li cunti, sometimes known as Il Pentamerone. It was written in the ‘low’ key dialect of the Baroque South of Italy (at a time when Dante and Boccaccio had already canonised the northern dialect as the foundation of standard Italian). ‘L’orsa’ is the first known version of ATU-510b with the cooking function. The heroine, Preziosa, inserts a magic block of wood into her mouth to magically transform into a she-bear in order to escape. In the home of the prince, she becomes his servant and the prince espies her in her true form. He falls into a love-sickness, requesting only the bear to prepare his meals: 

And so his mother had an armful of chickens brought in, and the fire was lit in a fireplace right there in the bedroom, and water put to boil; and the bear, taking a chicken in her hand, scalded it, plucked it expertly, and when she had gutted it stuck part of it on a spit and with the rest made a nice gratin. The prince, who hadn’t been able to keep even sugar down, was now licking his fingers, and when he had finished stuffing himself she gave him something to drink with such grace that the queen wanted to kiss her on the forehead.

The fame of Basile’s collection popularised this new strain of ATU-510b with the above cooking function. The bear is capable of wifely duties – cooking and serving before tidying the bedroom and beautifying it with flowers (reminiscent of the Straparola version) – and she does these tasks with a civilised grace.  Even with bear paws, she deftly plucks, roasts, and cooks the poulet au gratin. As Zipes discusses in Fairy Tales and the Art of Subversion, such demonstrations of appropriate behaviour are key in the role that fairy tales began to play in what Norbert Elias calls ‘the civilising process’ across Europe, despite demonstrating an absurdity which actually satirizes and destabilizes the cultural norms of the time. It is through the comedy of representing the nobility as ‘pretending to up hold the standards of civilité’ and the juxtaposition of the unexpected characters who demonstrate good behaviour (such as the gentle she-bear) that both criticism and affirmation of Basile’s society can be presented through his fairy tales. Because one cannot truly expect a princess to pluck a chicken, or even know how, the story does two things. First, it is able to mock the ruling class by presenting the comedic juxtaposition between nobility and the lesser tasks of food preparation. There were many books printed in Europe in this time period detailing appropriate behaviour for management of a wealthy household, and in particular, discriminating which staff were expected to perform which particular duties. It not only separated the upper from the lower classes in terms of domestic expectations, but also:

[t]he aim [of works for the court] is to inculcate a code of manners that is specifically contrasted with that of the rustic; there is “town – country” distinction that is also a kind of class distinction, though as in Restoration times the latter category may include aristocrats who have spent their days in the country, away from the civilising influence of court life.24 The ‘rustic behaviour’ (such as the plucking and gutting of a whole chicken) is ‘not merely quaint but barbarous.’ 

Moving this behaviour from the unseen kitchen into the upper-class bedroom is an inverted presentation of expected civilised behaviour and lets Basile make merry with the conventional roles of person and place in his time. As the number of whole-roasted animals served at the seventeenth-century table decreased due to the civilising process and the rise of manners and civilité, a new ‘rapidly articulated standard of taste suppresses reminders that meat-eating is connected with predation, ie the killing of an animal’; thus, humans began to move away from reminders of their own animal behaviours. Yet, Preziosa, in bear form, is an animal herself and accordingly has no hesitation in ‘rustically’ preparing and serving the whole, roasted chicken. Secondly, the preparation of the chicken by the princess also implies that, although her status is outwardly noble, her deeds are those of a working-class member of society. However, as the story reached lower-class audiences who were themselves in rustic or domestic roles, Preziosa could become an example of a person who had fallen from grace but arrived at a familiar rank and status and was still able to rise above her circumstances to a new class distinction. She is then rewarded for performing those duties capably, giving the lower-class audience reason to fulfil their toils and perpetuate the status quo in hollow hope of their own advancement. Thus, this fairy tale simultaneously allows for imaginary escapism from domesticity while reinforcing the divided class system. 

The cooking function also allows the princess to take what is ‘raw’ and thus ‘wild’ and transform it through the act of roasting and grilling into something which is ‘cooked’ and ‘tamed’. The culinary triangle of Claude Lévi-Strauss, which illustrates the cultural systems at work in varying food preparation methods, puts raw foods in the category of ‘nature’ and cooked foods, especially those which employ a utensil or receptacle, in the category of ‘culture’ (the third point of the triangle being ‘rotted’ food). This is the same paradox of ‘nature’ and ‘culture’ that the high-born princess in her bear form embodies. As the she-bear prepares the chicken both roasted and as a gratin (which requires a receptacle, and thus is in the category of ‘culture’), the scene covers two further divisions in the culinary triangle: the roasted (midway between raw and cooked on the axis of the intermediate element ‘air’) and the boiled (midway between raw and rotted with the addition on the axis of the intermediate element ‘water’).  This resolves any movement of boiled or roasted food between endocuisine (‘prepared for domestic use’) or exo-cuisine (‘that which one offers to guests’), considering that Lévi-Strauss notes that different societies have different appraisals of the value of boiled versus roasted meat. Nonetheless, Preziosa shows she is capable of preparing both, covering all bases in order to receive the approval from the prince’s mother. This change of food from raw to cooked is paralleled by the change the princess herself goes through in becoming a wild bear whilst continuing to demonstrate civil qualities. In later versions, the contrast is also present, as although the princess is not explicitly an actual animal, but is merely dressed in animal pelts. Recalling Zipes and his use of Norbert Elias’ ‘civilising process’, this demonstrates again the need for a distinctive civilité in order for the princess to rise again as an appropriate member of the state’s ruling (royal) class.Aside from the roasting of the chicken, the next significant motif in this section is the preparation of the ngrattinato. Once more adding another layer of culture, this shows Preziosa is able to prepare not only food, but cuisine. This symbol is rarely translated as gratin into English, but rather as stew, hash, or soup. John Edward Taylor, the first to translate Il Pentamerone into English in 1847, translates this as ‘hash’. Sir Richard Francis Burton translates this motif in 1893 as ‘stewed’ chicken. However, it appears that Nancy Canepa, whose translation of Basile’s regional dialec captures most successfully the original style of the text without omission, has come closest by translating ngrattinato as gratin. I contest that there are two possible foods that Basile’s ngrattinato could refer to: an Italian version of a French poulet au gratin or something like the Italian dish recorded by Bartolomeo Scappi in his notable record of his sixteenth-century papal kitchen, pan grattato. Foods cooked au gratin were at least known in Italy in the 1600s. Making food au gratin originates from the French practice of browning breadcrumbs or cheese under a grill to make a crust atop a dish. It may have originated as far back as the fifteenth century, since it is referenced in archival texts from Provence. The gratin originally referred only to the crust on top of the dish, and au gratin was the practice of making a food with this crust on top. Scappi’s Opera recommends preparing the sweetbreads (veal thymus) au gratin and in his directions he uses the Italian word ‘grattinata’, very close to Basile’s word ‘ngrattinato’ in the southern dialect. Even in Sicily and Naples today, macaroni au gratin is still popular and Croce’s footnote in his edition of Basile’s Il Pentamerone further implies contemporary knowledge of this dish (and also to a the association of gratin with poultry). And although it is not explicitly designated as a dish au gratin, Scappi’s recipe for ‘a spit-roast capon after it has been half cooked by boiling’ is finished with a very gratin-like browned crust of ‘melted rendered fat or hot lard, [sprinkled] right away with sugar, cinnamon, flour, grated bread, and fennel seeds’. This recipe echoes the steps Preziosa takes with the chickens that the queen brings to her to prepare, giving a real-world example of a similar Italian dish.


Course II: Consommé

In light of the above, it may seem incorrect that the tendency of many translators is to translate the word ngrattinato as a stewed chicken or chicken soup instead of as a gratin. However, in subsequent variants of ATU-510b, the prince is given a soup or simple consommé (without the chicken mentioned, and on occasion the food motif is specifically bread soup) which cures him of his illness. This may be due to the folk wisdom surrounding chicken soup as a curative and nourishing dish. This also emphasises that it is the princess who truly restores him when she reveals herself through a trinket or ring dropped into the bowl. Thus, she also gives him herself, which cures his genuine ailment: lovesickness. So despite the obvious link to a modern dish, the choice of the translators appears to be in favour of foods which further encourage the association with Preziosa’s prepared food to that which is curative, healing, and medicinal. Even Canepa gives ngrattinato yet another translation as either ‘stew’ or ‘casserole’ in other tales from the same set of texts.42 This could be indicative of the ngrattinata being not poulet au gratin, but indeed a version of a soup that might be given to a sick person, such as pan grattato (grated bread). If this was the intention at the time, the food motif may have persisted as soup because Basile’s ngrattinato itself was more like soup. Thus oral variations distilled from Basile’s works which had the privilege of understanding this motif as Basile himself envisioned it led to the later versions, which in turn informed the translators’ choices. Scappi’s recipe for pan grattato is notably found in Book VI of his Opera, ‘Dishes for the Sick: Thick Soups’. It is as follows: 

To prepare [pan grattato].

Grate white hard bread that is firm, because otherwise you would not be able to grate it with the cheese grater. While it is still dry like that, put it through a colander whose holes should not be too fine. Take the finest part of it and put it into boiling chicken stock or veal stock that has been strained… …Whichever way it is made, you always have to mind this instruction, that you put it into stock or water that is boiling. Serve it hot.

 Whichever of the two was meant by Basile, it is the consommé or thick soup element which persists into variants like that by the Brothers Grimm, and not the roasted chicken prepared au gratin.


Course III: French Galettes

Not long after Basile’s Pentamerone was published, Charles Perrault published his verse version of ‘Peau d’Âne’ in France in 1694. Yet, despite the close proximity in time, the French version has notable differences from Basile’s ‘L’orsa’. Here, the princess, clad in her donkey-skin pelt, resorts to seeking work on a tenant farm which houses an extensive aviary belonging to a king. The tale has changed, now more closely resembling the landscape of France, the fashionable French court, and its nobility’s practices. And food in the tale is no different, as this was a time when national cuisines were beginning to take shape and become less homogenized across Europe. The story continues with the prince catching a glimpse of the heroine in one of her beautiful dresses instead of her repulsive donkey skin, falling sick with love, and claiming that only a cake made from the Donkey Skin’s hand will cure him. Cake now replaces the chicken, the gratin, and the references to soup and stew. Perrault’s original verse uses galette (which Appelbaum translates as ‘biscuit’) rather than the expected gâteau, perhaps to fit the rhyming scheme. The prince, in fact, initially requests a gâteau, but receives the galette. Perrault continues the use of galette even when it does not matter to the rhyming scheme, indicating that although the choice may have been for poetic purposes initially, it does not fluctuate again once the item has been baked and created in the text. The change is noteworthy, both as it relates to the contrast between chicken au gratin/chicken stew and pastry/cakes and also to the contrast between cakes as we understand them in a modern context and seventeenth-century galettes. To the first point, chicken stew is healthy and nourishing, but a gâteau is an indulgence befitting a prince. Yet this galette is not necessarily a sweet and risen dessert, as translators suggest by using the word ‘cake’. Indeed, the prince should not have been indulging in his ill state; rather, he should have eaten ‘proper nourishment.’ To the second point, it is possible that ‘cake’ is a mistranslation in this instance. There is a strange omission by Perrault when he describes the ingredients Donkey Skin gathers to bake the cake: 

Peau d’Âne donc prend sa farine Que’elle avait fait bluter exprés Pour render sa pâte plus fine, Son sel, son beurre et ses œufs frais; Et pour bien faire sa galette, S’enferme seule en sa chambrette. [And so, Donkey-Skin took her flour, Which she had had bolted expressly To make her dough more delicate; She took her salt, butter, and fresh eggs; And to make her biscuit properly, She shut herself into her little room alone.]

 Perrault has failed to include any kind of sweetener and makes no mention of honey, sugar, or any other addition of an ingredient to flavour the galette. If this omission is not an oversight by Perrault, then the cake which Donkey Skin bakes is not necessarily a dessert or luxurious rich treat, but instead could be a cracker- or biscuit-like flat pastry (like a shortcrust pastry or pâte brisée), or a puff pastry like the galette des Rois which is eaten on Epiphany and sweetened with a layer of frangipane, or a Breton buckwheat pancake. 

The place of the galette at the table certainly differs from the curative chicken that Preziosa brings to the ailing prince. Baking, too, is more intricate and cultured than the now comparatively barbaric moment where the bear plucks, guts, and roasts the chicken. It transmits an air of a more civilized household task, because although they are both outside the realm of a princess’s knowledge, baking is far more dainty an undertaking than the roasting of meat in one’s bedroom. It is also interesting that Donkey Skin’s galette has no other flavour besides that of the dough, as galettes would often be flavoured or sugared (for example, as detailed in the prescribed food necessary for a wedding feast in Le Ménagier de Paris). However, without any mention of additions like frangipane or sugar, Peau d'Âne’s galette most likely resembled the unsweetened puff pastry round, the Breton pancake, or a small, flat cracker. Peau d'Âne’s end result must be risen enough to disguise her ring which has fallen into the dough, but the galette Bretonne resembling a savoury pancake or crêpe probably would not have done this, nor would the wafer-thin shortcrust cracker or biscuit. The inclusion of the ring inside may also be reminiscent of the bean placed in the galette des Rois to celebrate Twelfth Night, where the person who receives the bean is king for the day. Similarly, the prince’s acquisition of Peau d'Âne’s ring from the galette, and therefore her hand in marriage, allows him to fulfil one of the necessary duties of kingship. This was indeed an age in which gastronomic concerns and cuisine were beginning to indicate social status and aristocratic lifestyles. Yet, the plain galette, as Peau d'Âne makes on the farm, is not quite the courtly food associated with French cuisine under the reign of Louis XIV. Perrault’s choice of setting the scene in the countryside, and not at court, helps to reflect perhaps why her galette is so simple. She is learning the ways of the peasantry as a servant on a farm (not in a royal kitchen, as in some variants), and that includes the knowledge of cooking and baking the peasantry’s simple dishes. Although there are kinds of galettes which might be considered appropriate for courtly consumption, this unflavoured, humble food baked by Donkey-Skin reflects her new farmstead surroundings as much as her fallen class status. But once again, as in ‘L’orsa’, the performance of a lower-class task and now the presentation of an unadorned foodstuff, is the pivotal moment for the fallen heroine to be lifted once more to her former station.


Course IV. Warme Brotsuppe

As we move forward again in history to the version collected, edited, and adapted for print by Jacob and Wilhelm Grimm, there is a return of the soup or stew motif in their tale ‘Allerleirauh’. The residual elements of that particular food may have survived from Basile through the Grimms’ oral source, though the Grimms themselves certainly knew many of the previous versions, including Perrault’s. But unlike in Basile, the chicken adroitly prepared in the bedroom is missing, and instead the tale has a threefold repetition of the heroine, Allerleirauh (‘All-Kinds-of-Fur’ or 'Manyfurs' or 'Thousandfurs' or 'The Furry Beast'), preparing a simple Brotsuppe or bread soup. Another version, which the Grimms heard from Paderborn, has the food item listed in their notes as ‘some very good soup’, although for print they have favoured the version specifying Brotsuppe. 
Like the pan grattato recipe which Scappi provides in his Opera, bread soup is a simple dish, a consommé made from bread and a meat or vegetable stock. Soup itself originates from a practice of pouring liquid over a piece of bread, or a ‘sop’, and allowing the bread to soak up the liquid so that one has an easy way of ingesting the entirety of the stock or liquid portion. Bread soup was often a way to use up stale bread, making it softer to chew and more palatable, as in the Italian ribollita or the French panada. Thus, its association with a need to not let anything go to waste meant that it represented a more rustic, provincial food for much of Europe. As the German nobility had imported a taste for French cuisine (and with it French chefs), regional German foods rose in popularity not in the courts but in the independent Hanseatic towns and in the provinces, where the bourgeois culture was allowing regional pride to thrive. This same Romantic desire for a German nationalism and identity that inspired the Grimms to collect tales was also visible in the new inclination for regional foods. The Grimms’ choice to use Brotsuppe could be to reinforce the particular German-ness of ‘Allerleirauh’. But this soup was not completely unknown to nobility, allowing the nourishing and curative nature of a broth-based consommé soup to carry over from the Italian variants without losing meaning and significance. Although bread soup is a food of the lower class, made out of necessity, and soup generally would never have equated to a full meal for the nobility, it perhaps would have been included as part of a first course, digestive aid, or food for the sick. It may also be considered akin to a ‘comfort food’, giving the prince a spell of nostalgia, a feeling of warmth, or a calming of the stomach. 
As in ‘L’orsa’, it is a curiosity that the princess heroine knows how to cook such a dish so skilfully (the prince remarks that it tastes better than any soup he has ever had before), given the usual skill sets of the nobility. Ignoring the real historical roles of princesses opens the discussion to the roles of wives, as Jorgensen comments on: 

When the heroine cooks, whether she roasts or boils or bakes for the prince, this is a functional display of her domestic abilities, as well as a demonstration of her replacement of his mother as the main nurturer in his life (which is an interesting transformation ...). In some versions, the heroine engages in other clearly “feminine” activities, such as spinning. Thus, she is not only reincorporated into a cultural sphere where she is no longer identified as or with animals, but also valued for her human skills. 

Jorgensen touches on the fact that these skills are traditionally feminine, and that is, I believe, where most of that value arises. Although courtly chefs were often male, the majority of household oven-bakers and soup-makers would have been domestic, lower-class women. Once again, the use of lower-class dishes can help to send a message to the listener of the tales. In the case of the lower-class woman, it can give her a feeling of value in her skills, or give hope to the possibility of upward movement through them (even when no such possibility may exist). 

Certainly it is also strange for such a humble dish to be served to the prince in light of the omission of an ailment. But in the tradition of the literary fairy tale, the authorial hand can sometimes be very evident. Much has been written on the ways in which the Grimms’ edited and authored their collection, not maintaining the purported ‘purity’ of the folktales. As Zipes discusses, ‘they used their aesthetic and ideological preferences in selecting and reworking the motifs in tales that had a bearing on their own lives.’And the Grimms themselves lived an austere life, as evidenced by a letter from Wilhelm in 1812 which detailed how little they ate: ‘We five people eat only three portions and only once a day. I usually save something for breakfast because I cannot bear waiting until five o’clock. Jacob usually eats only breakfast when each of us drinks but a single cup of coffee and eats nothing more than milk bread.’ The choice for Brotsuppe may, then, have been informed by a desire to represent not only a nobility which is not consuming French food (thus, not choosing the galette of ‘Peau d’Âne’), but also one which is a reflection of the Grimms’ own ascetic lifestyle, where the lowly bread soup plays a key role. 

It is obvious that the three variants of the ATU-510b tale type discussed in this article are related in terms of their narratives, but are informed by very different choices by both author and translator when it comes to the central food motifs. They are not passive props for the tale, chosen at random. They are sometimes chosen because they were simply the unremarkable foods which appeared on tables at the time, or because they had a further weight in that society as cures, luxuries, foods of the peasantry, or foods of the elite. They give the reader an image of the food culture from which the variant originated, and they intimate ideas about the class and role of the characters or even of the tellers themselves. We cannot make assumptions based on our modern food habits, or what we fancifully imagine fairy-tale foods to be. Only when we understand the food motifs literally can we begin to attempt to understand them metaphorically.



PS. VIS-À-VIS HAMLET

L'ORSA: febrile symptoms -fever, tachycardia, delirium-; acute

Ma dopo aver parlato tanto, non ricevendo nemmeno un piccolo cenno di risposta, si ributtò a letto, gli venne un brutto male,  e i medici dissero che forse non c'era più nulla da fare. La mamma, che non aveva altro che lui, seduta accanto al letto gli disse:
- Figlio mio, da dove viene questa disperazione furiosa? che cos'è questa nera malinconia che ti prende? Tu sei giovane, sei amato, sei grande, sei ricco: cosa ti manca, figlio mio? parla, a chi non bussa non si apre la porta.  Se vuoi una sposa, tu la scegli e io la procuro, tu compri e io pago. Non vedi che il tuo male fa male anche a me? Se il tuo polso batte forte, a me viene il batticuore, se bruci di febbre io mi sento andare in fumo il cervello, perché ho solo te nella vita. E allora sta' contento e accontentami, questo regno  senza te è perduto, il nostro casato finisce e io son disperata.

Il principe, sentendo queste parole,  disse: "Nessuna cosa mi può dar conforto se non la vista dell'orsa. Perciò se mi vuoi vedere star bene, falla stare in questa stanza, e non voglio che nessun altro pensi a me e mi faccia il letto e da mangiare, solo lei e lei sola, e di certo con questo piacere guarirò in quattro balletti".
La mamma, pur sembrandole uno sproposito che l'orsa facesse la cuoca e la cameriera e pensando che suo figlio aveva perso la testa, volle accontentarlo e la fece venire. E lei, avvicinatasi al letto del principe, alzò la zampa e toccò il polso del malato, cosa che terrorizzò la regina, convinta che da un momento all'altro gli avrebbe sbranato il naso.
Ma quando il principe disse all'orsa: "Puccina mia, non vuoi cucinare per me e darmi da mangiare e farmi le cose?", lei abbassò il capo facendo capire che accettava. Allora la regina ordinò che portassero un po' di galline e che accendessero il fuoco nel camino della camera per far bollire l'acqua. L'orsa prese in mano una gallina, la scottò  e la spennò con garbo, e dopo averla svuotata ne infilò una parte nello spiedo e con l'altra parte preparò un bel gratinato, che il principe, al quale non riuscivano a far inghiottire nemmeno lo zucchero, mangiò tutto leccandosi le dita, e quando ebbe finito di mangiare l'orsa gli diede da bere con tanta grazia che la regina la volle baciare in fronte.
Fatto questo, mentre il principe era sceso a fare quella roba che guardano i medici per giudicare come sta il malato, l'orsa rifece subito il letto e, correndo in giardino, colse un bel mazzo di rose e fiori di cedrangolo e ce li sparse, tanto che la regina disse che questa orsa valeva un patrimonio, e che aveva proprio ragione suo figlio a volerle bene.
Ma il principe, vedendo con che cortesia lo serviva, sentì ravvivarsi il fuoco d'amore, e se prima si consumava piano piano, ora rischiava di finire in un colpo solo, e disse alla regina: "Mamma, signora mia, se non do un bacio a questa orsa, rimango senza fiato!". La regina, che lo vedeva perdere i sensi, disse: "Bacialo, bacia, bell'animale mio, non vedi che questo povero figlio mio sta morendo?".
E come l'orsa si accostò, il principe dopo averla presa a pizzichini non si stancava di baciarla, e mentre stavano muso a muso non so come scappò lo steccolino dalla bocca a Preziosa e restò fra le braccia del principe la creatura più bella del mondo. E lui, tenendola stretta forte fra le braccia, le disse: "Ti sei fatta acciuffare scoiattolina, non mi scappi più senza ragione!".
Preziosa, spandendo il colore della vergogna sulla sua naturale bellezza, gli disse: "Sono già nelle tue mani, ti affido il mio onore e rifletti pensa e mettimi dove vuoi". Alla regina che domandò chi era questa bella fanciulla e cosa l'aveva costretta a quella vita selvatica, lei raccontò per filo e per segno tutta la storia delle sue disgrazie; per questo la regina, lodandola perché era buona e onorata, disse al figlio che era felice che la sposasse.
E il principe, che non chiedeva nient'altro che questo dalla vita, le diede la fede, mentre la loro bellissima unione fu festeggiata in tutto il reame di Acquedolci, dove vissero felici per sempre.

La mamma, pur sembrandole uno sproposito...
La regina madre, come in tante altre versioni, è pronta a sospendere le sue valutazioni pur di aiutare il figlio che rischia di morire d'amore. La posta è l'autonomia esogamica ed eterosessuale: le figure parentali possono mettersi a disposizione dei figli, non guidarli in questo percorso: a questo proposito si veda anche il personaggio della regina madre di fronte al re che sposa una popa ne La scatola di cristallo.


PEAU D'ÂNE DE PERRAULT: adustion? --The love interest in this tale is already an only child with a mother as only parent, and prone to flights of fancy and rêveries - did Perrault know Shakespeare's Hamlet, to change his symptoms from physical to psychological?

Le fils du roi dans ce charmant séjour 
Venait souvent au retour de la chasse 
Se reposer, boire à la glace 
Avec les seigneurs de sa cour. 
Tel ne fut point le beau Céphale:
Son air était royal, sa mine martiale
Propre à faire trembler les plus fiers bataillons.

Peau d'Âne de fort loin le vit avec tendresse,
Et reconnut par cette hardiesse
Que sous sa crasse et ses haillons
Elle gardait encore le coeur d'une princesse.
''Qu'il a l'air grand, quoiqu'il l'ait négligé, 
Qu'il est aimable, disait-elle,
Et que bienheureuse est la belle
À qui son coeur est engagé!

D'une robe de rien s'il m'avait honorée,
Je m'en trouverais plus parée
Que de toutes celles que j'ai.''

Un jour le jeune prince errant à l'aventure
De basse-cour en basse-cour,
Passa dans une allée obscure
Où de Peau d'Âne était l'humble séjour.
Par hasard il mit l'oeil au trou de la serrure:
Comme il était fête ce jour,
Elle avait pris une riche parure
Et ses superbes vêtements
Qui, tissus de fin or et de gros diamants,
Egalaient du soleil la clarté la plus pure.
Le prince au gré de son désir
La contemple et ne peut qu'à peine,
En la voyant, reprendre haleine,
Tant il est comblé de plaisir.

Quels que soient les habits, la beauté du visage,
Son beau tour, sa vive blancheur,
Ses traits fins, sa jeune fraîcheur
Le touchent cent fois davantage;
Mais un certain air de grandeur,
Plus encore une sage et modeste pudeur,
Des beautés de son âme assuré témoignage,
S'emparèrent de tout son coeur.

Trois fois, dans la chaleur du feu qui le transporte,
Il voulut enfoncer la porte;
Mais croyant voir une divinité,
Trois fois par le respect son bras fut arrêté.

Dans le palais, pensif il se retire,
Et la nuit et le jour il soupire;
Il ne veut plus aller au bal
Quoiqu'on soit dans le carnaval.
Il hait la chasse, il hait la comédie,
Il n'a plus d'appétit, tout lui fait mal au coeur;
Et le fond de sa maladie
Est une triste et mortelle langueur.

On a beau dire, il ne saurait le croire;
Les traits que l'amour a tracés,
Toujours présents à sa mémoire,
N'en seront jamais effacés.

Cependant la reine sa mère,
Qui n'a que lui d'enfant, pleure et se désespère;
De déclarer son mal elle le presse en vain,
Il gémit, il pleure, il soupire,
Il ne dit rien, si ce n'est qu'il désire

Que Peau d'Âne lui fasse un gâteau de sa main;
Et la mère ne sait ce que son fils veut dire.

-- N'importe, dit la reine, il faut le satisfaire, 
Et c'est à cela seul que nous devons songer.'' 
Il aurait eu de l'or, tant l'aimait cette mère, 
S'il en avait voulu manger.


Fort sûr que, quand le prince à sa porte aborda
Et par le trou la regarda, 

Elle s'en était aperçue.
Sur ce point la femme est si drue,
Et son oeil va si promptement,
Qu'on ne peut la voir un moment
Qu'elle ne sache qu'on l'a vue.
Je suis bien sûr encore, et j'en ferais serment,
Qu'elle ne douta point que de son jeune amant
La bague ne fût bien reçue.

On ne pétrit jamais un si friand morceau,
Et le prince trouva la galette si bonne
Qu'il ne s'en fallut rien que d'une faim gloutonne
Il n'avalât aussi l'anneau.

Quand il en vit l'émeraude admirable,
Et du jonc d'or le cercle étroit
Qui marquait la forme du doigt,
Son coeur en fut touché d'une joie incroyable;
Sous son chevet il le mit à l'instant,
Et son mal toujours augmentant,
Les médecins sages d'expérience,
En le voyant maigrir de jour en jour,
Jugèrent tous, par leur grande science,
Qu'il était malade d'amour.

Comme l'hymen, quelque mal qu'on ne dise,
Est un remède exquis pour cette maladie,
On conclut à le marier; 

Il s'en fit quelque temps prier,
Puis dit: ''Je le veux bien, pourvu que l'on me donne
En mariage la personne
Pour qui cet anneau sera bon.''
À cette bizarre demande,
De la reine et du roi la surprise fut grande;
Mais il était si mal qu'on n'osa dire non.

On crut enfin que c'était fait, 
Car il ne restait en effet 
Que la pauvre Peau d'Âne au fond de la cuisine. 
Mais comment croire, disait-on, 
Qu'à régner le Ciel la destine? 
Le prince dit: ''Et pourquoi non? 
Qu'on la fasse venir.'' Chacun se prit à rire,

Dans la joie et le bruit de toute l'assemblée,
Le bon roi ne se sentait pas
De voir sa bru posséder tant d'appâts;
La reine en était affolée,
Et le prince son cher amant,
De cent plaisirs l'âme comblée,
Succombait sous le poids de son ravissement.


PEAU D'ÂNE EN PROSE: febrile symptoms once more - also the return of the father-in-law/love interest's dad, generally disappeared or deceased across versions

Ce prince était jeune, beau et admirablement bien fait, l’amour de son père et de la reine sa mère, adoré des peuples. 
Le prince, peu satisfait de cet éclaircissement, vit bien que ces gens grossiers n’en savaient pas davantage, et qu’il était inutile de les questionner. Il revint au palais du roi son père, plus amoureux qu’on ne peut dire, ayant continuellement devant les yeux la belle image de cette divinité qu’il avait vue par le trou de la serrure. Il se repentit de n’avoir pas heurté à la porte, et se promit bien de n’y pas manquer une autre fois. Mais l’agitation de son sang, causée par l’ardeur de son amour, lui donna, dans la même nuit, une fièvre si terrible, que bientôt il fut réduit à l’extrémité. La reine sa mère, qui n’avait que lui d’enfant, se désespérait de ce que tous les remèdes étaient inutiles. Elle promettait en vain les plus grandes récompenses aux médecins ; ils y employaient tout leur art, mais rien ne guérissait le prince.
Enfin ils devinèrent qu’un mortel chagrin causait tout ce ravage ; ils en avertirent la reine, qui, toute pleine de tendresse pour son fils, vint le conjurer de dire la cause de son mal ; et que, quand il s’agirait de lui céder la couronne, le roi son père descendrait de son trône sans regret, pour l’y faire monter ; que s’il désirait quelque princesse, quand même on serait en guerre avec son royaume, et qu’on eût de justes sujets pour s’en plaindre, on sacrifierait tout pour obtenir ce qu’il désirait ; mais qu’elle le conjurait de ne pas se laisser mourir, puisque de sa vie dépendait la leur.
La reine n’acheva pas ce touchant discours sans mouiller le visage du prince d’un torrent de larmes. « Madame, lui dit enfin le prince avec une voix très-faible, je ne suis pas assez dénaturé pour désirer la couronne de mon père ; plaise au ciel qu’il vive de longues années, et qu’il veuille bien que je sois long-tems le plus fidèle et le plus respectueux de ses sujets ! Quant aux princesses que vous m’offrez, je n’ai point encore pensé à me marier ; et vous pensez bien que, soumis comme je le suis à vos volontés, je vous obéirai toujours, quoi qu’il m’en coûte. — Ah ! mon fils, reprit la reine, rien ne nous coûtera pour te sauver la vie ; mais, mon cher fils, sauve la mienne et celle du roi ton père, en me déclarant ce que tu désires, et sois bien assuré qu’il te sera accordé. — Eh bien ! madame, dit-il, puisqu’il faut vous déclarer ma pensée, je vais vous obéir ; je me ferais un crime de mettre en danger deux êtres qui me sont si chers. Oui, ma mère, je désire que Peau-d’Âne me fasse un gâteau, et que, dès qu’il sera fait, on me l’apporte. »
La reine, étonnée de ce nom bizarre, demanda qui était cette Peau-d’Âne ? « C’est, madame, reprit un de ses officiers qui par hasard avait vu cette fille, c’est la plus vilaine bête après le loup ; une peau noire, une crasseuse, qui loge dans votre métairie et qui garde vos dindons. — N’importe, dit la reine : mon fils, au retour de la chasse, a peut-être mangé de sa pâtisserie ; c’est une fantaisie de malade ; en un mot, je veux que Peau-d’Âne (puisque Peau-d’Âne il y a) lui fasse promptement un gâteau. »

En travaillant, soit de dessein, ou autrement, une bague qu’elle avait au doigt tomba dans la pâte, s’y mêla ; et dès que le gâteau fut cuit, s’affublant de son horrible peau, elle donna le gâteau à l’officier, à qui elle demanda des nouvelles du prince ; mais cet homme, ne daignant pas lui répondre, courut chez le prince lui porter ce gâteau.
Le prince le prit avidement des mains de cet homme, et le mangea avec une telle vivacité, que les médecins, qui étaient présens, ne manquèrent pas de dire que cette fureur n’était pas un bon signe : effectivement, le prince pensa s’étrangler, par la bague qu’il trouva dans un des morceaux du gâteau ; mais il la tira adroitement de sa bouche : et son ardeur à dévorer ce gâteau se ralentit, en examinant cette fine émeraude, montée sur un jonc d’or, dont le cercle était si étroit, qu’il jugea ne pouvoir servir qu’au plus joli petit doigt du monde.
Il baisa mille fois cette bague, la mit sous son chevet, et l’en tirait à tout moment, quand il croyait n’être vu de personne. Le tourment qu’il se donna, pour imaginer comment il pourrait voir celle à qui cette bague pouvait aller ; et n’osant croire, s’il demandait Peau-d’Âne, qui avait fait ce gâteau qu’il avait demandé, qu’on lui accordât de la faire venir, n’osant non plus dire ce qu’il avait vu par le trou de la serrure, de crainte qu’on se moquât de lui, et qu’on le prît pour un visionnaire ; toutes ces idées le tourmentant à la fois, la fièvre le reprit fortement ; et les médecins, ne sachant plus que faire, déclarèrent à là reine que le prince était malade d’amour.
La reine accourut chez son fils, avec le roi, qui se désolait : « Mon fils, mon cher fils, s’écria le monarque affligé, nomme-nous celle que tu veux ; nous jurons que nous te la donnerons, fût-elle la plus vile des esclaves. La reine, en l’embrassant, lui confirma le serment du roi. Le prince, attendri par les larmes et les caresses des auteurs de ses jours : « Mon père et ma mère, leur dit-il, je n’ai point dessein de faire une alliance qui vous déplaise ; et, pour preuve de cette vérité, dit-il en tirant l’émeraude de dessous son chevet, c’est que j’épouserai la personne à qui cette bague ira, telle qu’elle soit ; et il n’y a pas apparence que celle qui aura ce joli doigt soit une rustaude, ou une paysanne. »
Le roi et la reine prirent la bague, l’examinèrent curieusement, et jugèrent, ainsi que le prince, que cette bague ne pouvait aller qu’à quelque fille de bonne maison. Alors le roi ayant embrassé son fils, en le conjurant de guérir, sortit, ...
Sitôt qu’elle entendit qu’on heurtait à la porte, et qu’on l’appelait pour aller chez le prince, elle remit promptement sa peau d’âne, ouvrit sa porte ; et ces gens, en se moquant d’elle, lui dirent que le roi la demandait pour lui faire épouser son fils : puis, avec de longs éclats de rire, ils la menèrent chez le prince, qui lui-même, étonné de l’accoutrement de cette fille, n’osa croire que ce fût elle qu’il avait vue si pompeuse et si belle. Triste et confondu de s’être si lourdement trompé : « Est-ce vous, lui dit-il, qui logez au fond de cette allée obscure, dans la troisième basse-cour de la métairie ? — Oui, seigneur, répondit-elle. — Montrez-moi votre main, » dit-il en tremblant et poussant un profond soupir…
Dame ! qui fut bien surpris ? Ce furent le roi et la reine, ainsi que tous les chambellans et les grands de la cour, lorsque de dessous cette peau noire et crasseuse sortit une petite main délicate, blanche et couleur de rose, où la bague s’ajusta sans peine au plus joli petit doigt du monde ; et par un petit mouvement que l’infante se donna, la peau tomba, et elle parut d’une beauté si ravissante, que le prince, tout faible qu’il était, se mit à ses genoux, et les serra avec une ardeur qui la fit rougir ; mais on ne s’en aperçut presque pas, parce que le roi et la reine vinrent l’embrasser de toute leur force, et lui demander si elle voulait bien épouser leur fils. La princesse, confuse de tant de caresses et de l’amour que lui marquait ce beau jeune prince, allait cependant les en remercier, lorsque le plafond s’ouvrit, et que la fée des Lilas, descendant dans un char fait de branches et de fleurs de son nom, conta, avec une grâce infinie, l’histoire de l’infante.
Le roi et la reine, charmés de voir que Peau-d’Âne était une grande princesse, redoublèrent leurs caresses ; mais le prince fut encore plus sensible à la vertu de la princesse, et son amour s’accrut par cette connaissance.
L’impatience du prince, pour épouser la princesse, fut telle, qu’à peine donna-t-il le tems de faire les préparatifs convenables pour cet auguste hyménée. Le roi et la reine qui étaient affolés de leur belle-fille, lui faisaient mille caresses, et la tenaient incessamment dans leurs bras ...



MUSÄUS' COUNT KONRAD -- a study in adustion, physical and psychological, on the banks of the Lech


Graf Konrad von Schwabeck ein deutscher Kreuzherr, auch Kastenvogt und Schirmherr des Bistums Augsburg, besaß daselbst einen Comterhof wo er sich im Winter aufzuhalten pflegte, in seiner Abwesenheit wohnte eine Schließerin darinne, Frau Gertrud genannt, die das Hauswesen regierte.

Graf Konrad schien bloß für das Vergnügen zu leben, er verabsäumte keine Lustbarkeit und kein Freudengelag. Bald gab es ein Ringelrennen, bald ein Stechen auf der Rennbahn, bald einen Ratswechsel oder sonst eine glänzende Feierlichkeit; auch fehlte es nicht an öffentlichen Reihentänzen auf dem Rathause, oder auf dem Markte, und durch alle Straßen, wo die Edelleute den Bürgerstöchtern goldne Fingerreife und seidene Tücher verehrten, Minnespiel und gute Schwänke trieben. Als die Fastnachts-Mummereien begannen, schien der Freudentaumel aufs höchste gestiegen zu sein.

Die Augsburger hatten bei Prinz Maxens Geburt Kaiser Friedrichen zu Ehren ein herrlich Bankett angestellt, das drei Tage dauren sollte, zu welchem sie viel Prälaten Grafen und Herrn aus der Nachbarschaft eingeladen hatten, dabei wurde jeden Tag um einen ausgesetzten Preis gestochen und zu Abendzeit wurden die schönsten Jungfrauen zu Rathaus aufgeholt um mit der edlen Ritterschaft zu tanzen, und das dauerte bis an den lichten Morgen. Ritter Konrad ermangelte nicht dieser Festivität mit beizuwohnen, und war des Abends beim Tanz der Held der zarten Frauen und Jungfrauen. Obgleich keine seiner gesetzmäßigen Liebe teilhaft werden konnte; denn er war ein Kreuzherr: so hatten sie ihn doch alle lieb und wert, er war ein schöner Mann und tanzte wonniglich.

Unter den edeln Rittern und Herren die sich herzudrängten, die fremde Jungfrau zu beäugeln, war der Kreuzherr nicht der letzte, ein feiner Mädchenspäher und nichts weniger als Misogyn, ihm dünkte, er habe nie eine glücklichere Physiognomie noch einen reizendern Wuchs gesehen. Er nahete zu ihr, zog sie zum Tanz auf; sie bot ihm bescheiden die Hand, und tanzte zur Bewunderung schön. Ihr leichter Fuß schien kaum die Erde zu berühren; die Bewegung des Körpers aber war so edel und ungezwungen, daß sie jedes Auge entzückte. Ritter Konrad bezahlte den Tanz mit der Freiheit seines Herzens, er entbrannte gegen die schöne Tänzerin in heißer Liebe und kam ihr nicht mehr von der Seite, sagte ihr so viel Schönes vor, und trieb sein Minnespiel mit solchem Ernst und Eifer, wie einer unsrer heutigen Romanhelden, denen flugs die Welt zu enge wird, wenn der schäckerhafte Amor sie hetzt. Fräulein Mathilde war ebensowenig Meisterin ihres Herzens; sie siegte und wurde besiegt; der Erstlingsversuch in der Liebe schmeichelte ihr mit erwünschtem Erfolg, und es war ihr unmöglich, die Sympathien ihrer Gefühle unter dem Schleier weiblicher Zurückhaltung zu verbergen, oder gar die Spröde zu machen. Der entzückte Kreuzherr merkte bald daß er kein hoffnungsloser Liebhaber war, es lag ihm nur daran zu wissen, wer die schöne Unbekannte sei und wo sie hause, um sein Liebesglück zu verfolgen. Doch hier war alles Forschen vergebens, sie wich allen Fragen aus, und mit vieler Mühe erhielt er nur von ihr die Zusage, den folgenden Tag nochmals den Tanz zu besuchen. Er gedachte sie zu überlisten, wenn sie allenfalls nicht Wort halten sollte, und stellte alle Bedienten auf die Lauer ihre Wohnung auszukundschaften, denn er hielt sie für eine Augsburgerin; die Tanzgesellschaft aber meinte, sie gehörte zur Freundschaft des Grafen, weil er ihr so schön tat und so freundlich mit ihr kosete.

Noch nie war dem Ritter ein Tag so lang worden als der nach dem Balle, jede Stunde dünkte ihm ein Jahr, Sehnsucht und Verlangen, Zweifelmut und Besorgnis, daß ihn die unerforschliche Schöne täuschen möchte, setzten sein Herz in Unruhe; denn Argwohn ist der Nachtreter der Liebe, und hetzte jetzt so in seinem Kopfe herum, wie die Windspiele des Kreuzherrn auf dem Comterhofe. Um Vesperzeit rüstete er sich zum Balle, kleidete sich sorgfältiger als Tages vorher, und die drei goldenen Ringe, das alte Abzeichen des Adels, funkelten diesmal mit Diamanten besetzt am Saume seiner Halskrause. Er war der erste auf dem Tummelplatze der Freude, musterte alle Kommenden mit dem Scharfblick des Adlerauges, und harrete mit Ungeduld der Erscheinung seiner Ballkönigin entgegen. Der Abendstern war schon hoch am Horizont heraufgerückt, ehe das Fräulein Zeit gewann auf ihre Kammer zu gehen, und zu überlegen was sie tun wollte; ob sie dem Bisamapfel den zweiten Wunsch abfordern oder diesen auf einen wichtigern Vorfall des Lebens aufsparen sollte. Die treue Ratgeberin Vernunft riet ihr das letztere zu tun; aber die Liebe forderte das erstere mit so viel Ungestüm, daß die Dame Vernunft nicht mehr zum Worte kam, und sich endlich gar eklipsierte.

Nach vollendetem Tanze führte Graf Konrad die ermüdete Tänzerin unter dem Vorwand, Erfrischung zu suchen in ein Seitengemach, sagte ihr in der Sprache eines feinen Hofmannes wie Tags zuvor viel Schmeichelhaftes; unvermerkt aber ging die kalte Hofsprache in die Sprache des Herzens über, und endete mit einer Liebeserklärung so zärtlich und innig, als ein Freier zu reden pflegt, der um eine Braut wirbt. Das Fräulein hörte mit verschämter Freude den Ritter an, und nachdem ihr klopfendes Herz und die glühenden Wangen eine Zeitlang ihre Empfindungen zu Tage gelegt hatten, und sie nun zu einer wörtlichen Erklärung ihrer Gegengesinnung aufgefordert wurde, redete sie gar züchtiglich also: »Was Ihr mir edler Ritter heut und gestern von zarter Liebe vorgesagt habt, gefällt meinem Herzen wohl, denn ich glaube nicht, daß Ihr mit trüglichen Worten zu mir redet. Aber wie kann ich Eurer ehelichen Liebe teilhaftig werden, da Ihr ein Kreuzherr seid und das Gelübde getan habt, ehelos zu bleiben Euer Leben lang? Wenn Euer Sinn auf Leichtfertigkeit und Buhlerei gestellt war, so hättet Ihr all Eure glatten Worte in den Wind geredet, darum löset mir das Rätsel, wie Ihr's anstellen möget, daß wir nach den Gesetzen der heiligen katholischen Kirche also zusammengebunden werden, daß unsre eheliche Einigung bestehen mag für der Welt.« Der Ritter antwortete ernsthaft und bieder: »Ihr redet als eine tugendliche und kluge Jungfrau, darum will ich auf Eure ehrliche Frage Euch jetzt Bescheid geben und Euren Zweifel lösen. Zur Zeit als ich in den Kreuzorden aufgenommen wurde, war mein Bruder Wilhelm der Stammerbe noch am Leben, seit der aber erbleicht ist, habe ich Dispensation erlangt, als der letzte meines Stammes ehelich zu werden, und dem Orden zu entsagen, so mir's gefällt; doch hat mich Frauenliebe nie gefesselt bis auf den Tag, da ich Euch sah. Von dem Augenblick an ward's mit meinem Herzen gar anders, und ich vertraue fest darauf, daß Ihr und keine andere vom Himmel mir zum ehelichen Gemahl beschieden seid. So Ihr mir nun Eure Hand nicht weigert, soll unser Bündnis nichts scheiden als der bittre Tod.« »Bedenket Euch wohl«, versetzte Mathilde, »daß Euch nicht die Reue ankomme: vorgetan und nachbedacht, hat in die Welt viel Unheil bracht. Ich bin Euch fremd, Ihr wisset nicht wes Standes und Würden ich sei; ob ich Euch an Geburt und Vermögen gleiche; oder ob ein erborgter Schimmer nur Eure Augen blendet. Einem Manne Eures Standes stehet an nichts leichtsinnig zu verheißen; aber auch seine Zusage nach Adelsbrauch unverbrüchlich zu erfüllen.« Ritter Konrad ergriff hastig ihre Hand, drückte sie fest ans Herz, und sprach mit warmer Liebe: »Das verspreche ich bei Seel und Seligkeit! Wenn Ihr«, fuhr er fort, »des geringsten Mannes Kind wäret, nur eine reine und unbefleckte Jungfrau: so will ich Euch ehrlich halten als mein Gemahl und Euch zu hohen Ehren bringen.« Drauf zog er einen Diamantring von großem Wert vom Finger, gab ihr den zum Pfand der Treue an ihre Hand, nahm dafür den ersten Kuß von ihren keuschen noch unberührten Lippen und sprach weiter: »Damit Ihr kein Mißtrauen in meine Zusage setzet, so lade ich Euch über drei Tage in mein Haus, wo ich meine Freunde des Prälaten- und Herrenstandes auch andre ehrenfeste Männer bescheiden will, unsrer Ehestiftung beizuwohnen.« Mathilde weigerte sich des aus allen Kräften, weil ihr der rasche Gang der Liebe des Ritters nicht gefiel, und sie die Beharrlichkeit seiner Gesinnungen zuvor erst prüfen wollte. Er ließ sich gleichwohl nicht abwendig machen ihre Einwilligung zu begehren, und sie sagte weder ja noch nein dazu. Wie Tages zuvor schied die Gesellschaft bei Anbruch der Morgenröte auseinander, Mathilde verschwand, und der Ritter, dem kein Schlaf in die Augen kam, berief in aller Frühe die wache Wirtschafterin, und gab ihr Befehl zur Zurichtung eines prächtigen Gastmahls.

Das Gastmahl begann, der fröhliche Wirt flog den Kommenden entgegen, und wenn der Türhüter schellete, wähnte er immer die unbekannte Geliebte sei an der Tür; wurde sie aber geöffnet, so trat ein Prälat, eine feierliche Matrone, oder ein ehrwürdig Amtsgesicht herein. Die Gäste waren lange beisammen und der Truchseß zögerte gleichwohl die Speisen aufzutragen. Ritter Konrad harrete noch immer auf die schöne Braut; als sie aber zu lang weilte, winkte er dem Truchseß mit geheimen Verdruß die Tafel zu beschicken. Man setzte sich und befand daß ein Gedeck zu viel war; niemand aber konnte erraten, wer die Einladung des Gastgebotes verschmähet hatte. Von Augenblick zu Augenblick verminderte sich die Fröhlichkeit des Gastgebers sichtbar, es war nicht mehr in seiner Gewalt den Trübsinn von seiner Stirn zu bannen, so sehr er sich auch angelegen sein ließ, durch erzwungene Heiterkeit die Gäste bei Laune zu erhalten. Dieser spleenitische Sauerteig säuerte gar bald den Süßteig der geselligen Freude, und es ging im Tafelgemach so still und ernsthaft her, wie bei einem Leichessen. Die Geiger, die des Abends zum Tanz aufspielen sollten, wurden fortgeschickt, und so endete diesmal die Fête im Comterhof ohne Sang und Klang, der sonst die Wohnung der Freude war.
Die mißmutigen Gäste verloren sich früher als gewöhnlich, und dem Ritter verlangte nach der Einsamkeit seines Gemachs, um sich seinem melancholischen Harm ganz zu überlassen, und über die Täuschungen der Liebe ungestört nachzudenken. Er warf sich auf dem Bette unruhig hin und her, und konnte mit seinen Sinnen nicht aus denken, welche Deutung er der mißlungenen Hoffnung geben sollte. Das Blut kochte in den Adern, der Morgen kam eh er ein Auge geschlossen hatte; die Diener traten herein, fanden ihren Herrn mit wilden Phantasien kämpfen, dem Anschein nach von einem heftigen Fieber befallen. Darüber geriet das ganze Haus in Bestürzung, die Ärzte rennten Trepp auf Trepp nieder, schrieben ellenlange Rezepte, und in der Apotheke waren alle Mörser im Gange, als ob sie zur Frühmetten läuten sollten. Aber das Kräutlein Augentrost, das allein der Liebe Sehnsucht lindert, hatte kein Arzt verschrieben, darum verschmähete der Kranke Lebensbalsam und Perlentinktur, unterwarf sich keinem Regime und beschwor die Ärzte, ihn nicht zu quälen, sondern den Sand seines Stundenglases allgemach verrinnen zu lassen, ohne mit hülfreicher Hand noch daran zu rütteln.
Sieben Tage lang, hatte sich Graf Konrad durch geheimen Kummer so abgezehrt, daß die Rosen seiner Wangen dahinwelkten, das Feuer der Augen verlosch, und Leben und Odem ihm nur noch zwischen den Lippen schwebte, wie ein leichter Morgennebel im Tal, der auf den kleinsten Windstoß wartet, ihn ganz zu verwehen. Fräulein Mathilde hatte genaue Kundschaft von allem was im Hause vorging. Es war nicht Eigensinn, nicht spröde Ziererei, daß sie die Einladung nicht angenommen hatte, es kostete einen harten Kampf zwischen Kopf und Herz, zwischen Vernunft und Leidenschaft, ehe der Entschluß feststund, der Stimme ihres Geliebten diesmal nicht zu gehorchen; teils wollte sie die Standhaftigkeit des raschen Liebhabers prüfen, teils fand sie Bedenken, den letzten Wunsch abzunötigen, denn als Braut meinte sie, zieme ihr ein neuer Anzug, und Frau Pate hatte ihr empfohlen, mit ihren Wünschen rätlich umzugehen. Indessen war ihr am Tage des Gastmahls gar weh ums Herz, sie setzte sich in einen Winkel und weinte bitterlich. Die Krankheit des Ritters, davon sie sich die Ursache leicht erklärte, beunruhigte sie noch mehr, und wie sie die Gefahr vernahm, in welcher er sich befand, war sie untröstbar.
Der siebente Tag sollte nach der Prognosis der Ärzte Leben oder Tod entscheiden. Daß Fräulein Mathilde für das Leben ihres Geliebten stimmte, ist leicht zu ermessen, und daß sie wahrscheinlicherweise dessen Genesung bewirken konnte, war ihr nicht unbekannt, nur die Art, wie sie sich dabei nehmen sollte, fand große Schwierigkeit; doch unter den tausend Fähigkeiten welche die Liebe erweckt und aufschließt, ist auch die mit einbegriffen, daß sie erfindungsreich macht. Mathilde ging ihrer Gewohnheit nach bei frühem Morgen zur Wirtschafterin, mit ihr über den Küchzettel Rat zu halten; aber Frau Gertrud war so außer der Fassung, daß sie sich auf die gemeinsten Dinge nicht besinnen, noch die Wahl der Speisen ordnen konnte, große Tränen wie die Tropfen einer Dachtraufe rollten über die ledernen Wangen: »Ach Mathilde!« schluchzete sie, »wir werden hier bald ausgewirtschaftet haben: unser guter Herr wird den Tag nicht überleben.« Das war eine gar traurige Botschaft, das Fräulein gedachte umzusinken vor Schrecken; doch faßte sie bald wieder Mut und sprach: »Verzaget nicht an dem Leben unsers Herrn, er wird nicht sterben, sondern gesund werden; ich habe heunt nacht einen guten Traum gehabt.« Die Alte war ein lebendiges Traumbuch, machte Jagd auf jeden Traum des Hausgesindes, und wo sie einen habhaft werden konnte, legte sie ihn immer so aus, daß die Erfüllung bei ihr stund; denn die anmutigsten Träume zielten bei ihr auf Hader, Zank und Scheltworte. »Sag an deinen Traum«, sprach sie, »daß ich ihn ausdeute.« »Mir war«, gegenredete Mathilde, »als sei ich noch daheim bei meinem Mütterlein die nahm mich beiseits und lehrte mich das Süpplein von neunerlei Kräutern kochen, das hilft für alle Krankheit so jemand nur drei Löffel davon genießt. ›Bereite dies deinem Herrn‹, sprach sie, ›und er wird nicht sterben, sondern von Stund an gesund werden.‹« Frau Gertrud verwunderte sich höchlich über diesen Traum, enthielt sich diesmal aller sinnbildlichen Deutung: »Dein Traum ist sonderbar«, antwortete sie, »und nicht von ungefähr. Richte flugs dein Süpplein zu, zum Frühstück, ich will sehn ob ich's über unsern Herrn vermag, daß er davon geneußt.« Ritter Konrad lag im stillen Hinbrüten matt und kraftlos, schickte sich zu seiner Heimfahrt und begehrte das Sakrament der letzten Ölung zu empfahen, da trat Frau Gertrud zu ihm hin, riß ihn durch ihre geläufige Zunge aus der Betrachtung der vier letzten Dinge, und quälte ihn mit gutgemeinter Geschwätzigkeit also, daß er um ihrer los zu werden verhieß was sie begehrte. Indessen bereitete Mathilde eine herrliche Kraftbrüh, tat darein allerlei Küchenkräuter und köstliche Würze, und als sie anrichtete, legte sie den Diamantring, welchen ihr der Ritter zum Pfand der Treue gegeben hatte in die Schale, und hieß den Diener auftragen.
Der Kranke fürchtete die laute Beredsamkeit der Wirtschafterin, die ihm noch in den Ohren gellete so sehr, daß er sich zwang einen Löffel Suppe zu nehmen. Als er zu Boden fuhr vermerkt' er einen heterogenen Körper, den er herausfischte und zu seinem Erstaunen den Diamantring fand. Sogleich glänzte sein Auge wieder voll Leben und Jugendfeuer, die hippokratische Gestalt verschwand, er leerte mit sichtbarer Eßlust die ganze Schale aus zu großer Freude der Frau Gertrud und des aufwartenden Gesindes. Alle schrieben der Suppe die außerordentliche Heilkraft zu, den Ring hatte der Ritter keinem der Umstehenden bemerken lassen. Drauf wendete er sich zu Frau Gertrud und sprach: »Wer hat diese Kost zugerichtet die mir wohltut, meine Kräfte belebt und mich wieder ins Leben ruft?« Die sorgsame Alte wünschte, daß der auflebende Kranke sich jetzt ruhig halten und nicht zu viel sprechen möchte, darum sprach sie: »Laßt Euch nicht kümmern gestrenger Junker, wer das Süpplein zugerichtet hat, wohl Euch und uns, daß es die heilsame Wirkung hervorgebracht hat, die wir davon hofften.« Durch diese Antwort aber geschah dem Ritter kein Genügen, er bestund mit Ernst auf der Beantwortung seiner Frage, auf welche die Ausgeberin diesen Bescheid gab: »Es dienet eine junge Dirne in der Küche, aller Kräfte der Kräuter und Pflanzen kundig, die hat das Süpplein zugerichtet das Euch so wohltut.« »Führt sie alsbald zu mir«, sagte der Ritter, »daß ich ihr danke für diese Panazee des Lebens.« »Verzeihet«, erwiderte die Haushälterin, »ihr Anblick würde Euch Unlust machen, sie gleicht an Gestalt einer Schleiereule, hat einen Höcker auf dem Rücken, ist mit schmutzigen Kleidern angetan, und ihr Angesicht und Hände sind mit Ruß und Asche bedeckt.« »Tut nach meinem Befehl«, beschloß der Graf, »und zögert keinen Augenblick.« Frau Gertrud gehorchte, berief eilig Mathilden aus der Küche zu sich, warf ihr ein Regentuch über, das sie zu tragen pflegte wenn sie zur Messe ging, und führte sie in diesem Aufputz in das Krankenzimmer ein. Der Ritter begehrte daß sich jedermann entfernen sollte, und als er die Tür hatte heißen zutun, sprach er: »Mägdlein bekenne mir frei, wie bist du zu dem Ringe gelanget den ich funden hab in der Schale, darein du mir das Frühstück zugerichtet hast?« »Edler Ritter«, antwortete das Fräulein züchtig und sittsam, »den Ring hab ich von Euch: Ihr begabtet mich damit am zweiten Abend des Freudenreihens, da Ihr mir Eure Liebe schwuret, sehet nun zu ob meine Gestalt und Herkunft verdienet, daß Ihr Euch so abgehärmt habt als wolltet Ihr ins Grab sinken. Euer Zustand jammerte mich, darum hab ich nicht länger verweilet, Euch aus dem Irrtum zu ziehen.«
Eines solchen Gegengiftes der Liebe hatte sich Graf Konrad nicht versehen, er bestürzte und schwieg einige Augenblicke. Aber die Gestalt der reizenden Tänzerin schwebte ihm bald wieder vor, und er konnte das Gegenbild das er vor Augen sahe nicht damit reimen, natürlich verfiel er auf den Gedanken, daß man seine Leidenschaft erraten habe und ihn durch einen frommen Betrug davon heilen wollte; doch der wahre Ring den er zurückempfangen hatte, ließ vermuten, daß die schöne Unbekannte auf irgend eine Weise mit im Spiel sein müßte; also legte er's drauf an, die seiner Meinung nach subornierte Dirne auszuforschen, und in der Rede zu fangen. »Seid Ihr die holde Jungfrau«, sprach er, »die meinen Augen gefallen hat, und welcher ich meine Treue gelobet habe, so zweifelt nicht daß ich meine Zusage treulich erfüllen werde; aber hütet Euch mich zu betrügen. Könnet Ihr die Gestalt wieder annehmen, die Ihr mir vorloget zwei Nächte hintereinander auf dem Tanzplatz; könnet Ihr Euren Leib schlank und eben machen wie eine junge Tanne; könnt Ihr die schabige alte Haut abstreifen wie die Schlange, und Eure Farbe wechseln wie das Chamäleon: so soll das Wort welches ich aussprach, als ich diesen Ring von mir gab, Ja und Amen sein. Könnet Ihr aber diesen Bedingungen nicht Gnüge leisten: so will ich Euch als eine lose Dirne stäupen lassen, bis Ihr mir saget, wie Euch dieser Ring ist zuhanden kommen.« Mathilde erseufzete: »Ach! ist es nur der Schimmer der Gestalt edler Ritter, wodurch Euer Auge geblendet wurde, wehe mir, wenn Zeit oder Zufall diese hinfälligen Reize zerstöret; wenn das Alter diesen schlanken Wuchs beugen und meinen Rücken krümmen wird; wenn die Rosen und Lilien abblühen, die feine Haut einschrumpft und runzelt; wenn einst die Truggestalt in welcher ich jetzt vor Euch stehe mir eigentümlich zugehöret; wo wird dann Eure mir geschworne Treue hinschwinden?« Ritter Konrad verwunderte sich ob dieser Rede, die für eine Küchendirne zu klug und überlegt schien. »Wisset«, war seine Antwort, »Schönheit bestrickt der Männer Herz; aber Tugend weiß es in den sanften Banden der Liebe zu erhalten.« »Wohlan«, erwiderte sie, »ich gehe, Euren Bedingungen Gnüge zu leisten; Eurem Herzen sei es überlassen, mein Geschick zu entscheiden.«
Der Kreuzherr schwankte noch immer zwischen guter Hoffnung und Furcht einer Täuschung, er schellte der Wirtschafterin und erteilte ihr den Befehl: »Geleitet dieses Mädchen auf ihre Kammer, daß sie sich reinlich kleide, harret an der Tür, bis sie heraustritt; ich erwarte Euer im Sprachgemach.« Frau Gertrud nahm ihre Gefangene in genaue Aufsicht, ohne eigentlich zu wissen, wohin der Befehl ihres Herrn gemeinet sei. Im Hinaufsteigen frug sie: »Hast du Kleider dich zu schmücken, warum hast du mir's verschwiegen? Gebricht dir's aber daran, so folge mir auf meine Kammer, ich will dir leihen soviel du bedarfst.« Hierauf beschrieb sie ihre altmodige Garderobe, worinne sie vor einem halben Jahrhundert Eroberungen gemacht hatte, Stück bei Stück, mit froher Zurückerinnerung an die vormaligen Zeiten. Mathilde hatte darauf wenig acht, begehrte nur ein Stücklein Seife und eine Hand voll Weizenkleien, nahm ein Waschbecken voll Wasser, ging auf ihre Kammer und tat die Tür hinter sich zu, Frau Gertrud aber bewachte solche von außen mit großer Sorgfalt wie ihr befohlen war. Der Kreuzherr, voller Erwartung welchen Ausgang das Abenteuer seiner Liebe nehmen werde, verließ sein Lager, kleidete sich aufs zierlichste und begab sich in sein Prunkgemach, mußte sich lange gedulden, eh er aus der Ungewißheit gezogen wurde, und wandelte mit geschwinden Schritten unruhig auf und ab. Doch als der welsche Zeiger am Augsburger Rathaus in der Mittagsstunde auf achtzehn Uhr wies, flogen urplötzlich die Flügeltüren auf, es rauschte durchs Vorgemach der Schweif eines seidenen Gewandes, Fräulein Mathilde trat herein mit Anstand und Würde, geschmückt wie eine Braut, und schön wie die Göttin der Liebe, wenn sie aus dem Götterdiwan des Olympus auf Paphos zurückkehrt. Mit dem Entzücken eines wonnetrunkenen Liebhabers rief Ritter Konrad: »Göttin oder Sterbliche, wer Ihr auch sein möget, sehet mich hier zu Euren Füßen, die Gelübden die ich Euch getan habe durch die heiligsten Eidschwüre zu erneuren, so Ihr anders würdiget Hand und Herz von mir anzunehmen.« Das Fräulein hob der Ritter bescheiden auf: »Gemach edler Ritter«, sprach sie, »übereilet Euch nicht mit Euren Gelübden, Ihr sehet mich hier in meiner wahren Gestalt, übrigens bin ich Euch unbekannt; ein glatt Gesicht hat manchen Mann betrogen. Noch ist der Ring in Eurer Hand.« – Flugs zog ihn Graf Konrad vom Finger, nun spielt' er an ihrer Hand und das Fräulein ergab sich dem holden Ritter. »Ihr seid von nun an mein Auserwählter«, sprach sie, »dem ich mich länger nicht verhehlen kann. Ich bin Wackermann Uhlfingers des ehrenfesten Ritters Tochter, dessen unglückliches Geschick Euch sonder Zweifel nicht verborgen ist, bin kümmerlich dem Einsturz des Elternhauses entronnen und hab in Eurer Wohnung, wiewohl in armseliger Gestalt, Schutz und Sicherheit gefunden.« Hierauf erzählte sie ihm ihre Geschichte, und verschwieg ihm auch die Heimlichkeit nicht. Graf Konrad, dachte nicht mehr daran daß er zum Sterben krank gewesen war, lud auf dem folgenden Tag alle die Gäste wieder, die zuvor sein Trübsinn so früh auseinandergescheuchet hatte, hielt öffentliche Verlobung mit seiner Braut, und als der Truchseß aufgetragen hatte und nun herumzählte, fand er daß kein Gedeck zuviel war. Drauf trat der Ritter aus dem Orden, verließ den Comterhof und vollzog sein Beilager mit großer Pracht. Bei dieser merkwürdigen Hausveränderung bewies sich die geschäftige Frau Gertrud ganz untätig: als sie Fräulein Mathildens Kammertür bewachte, und bei Eröffnung derselben eine stattlich gekleidete Dame zum Vorschein kam, war ihr Erstaunen so groß, daß sie rücklings vom Sessel fiel, einen Schenkel ausrenkte, und lendenlahm blieb ihr Leben lang.
Die Neuvermählten erlebten zu Augsburg das Spieljahr ihrer Ehe in Wonne und unschuldsvoller Freude, wie das erste Menschenpaar im Garten Eden. Von den Gefühlen der wohltätigen Leidenschaft durchdrungen, vertraute die junge Frau an den Busen ihres Eheherrn gelehnt, oft die Empfindungen ihrer Glückseligkeit seinem Herzen an, das sie als ein unbegrenztes Eigentum besaß. »Mein herzgeliebter Herr«, sprach sie einsmals, mit dem Ausdruck des innigsten Gefühls, »in Eurem Besitz ist mir nun kein Wunsch mehr übrig, ich erlasse meinem Bisamapfel die Erfüllung des dritten Wunsches mit Freuden. Habt Ihr aber irgend einen verborgenen Wunsch in Eurem Herzen, so tut mir's kund: ich will ihn zu dem meinigen machen und zur Stunde soll er Euch gewährt sein.« Graf Konrad schloß sein trautes Weib herzig in die Arme und beteuerte ihr hoch, daß außer der Fortdauer seiner Ehe für ihm nichts wünschenswert auf Erden sei.

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