lunes, 11 de febrero de 2019

La Salmace - GIROLAMO PRETI

Girolamo Preti
LA SALMACE

Argomento
Appiè del monte Ida, dal congiungimento di Venere e di Mercurio, nacque Ermafrodito, bellissimo fanciullo, il qual poscia, per vaghezza giovanile andando per lo mondo peregrinando, alla fine s’avvenne in Salmace, una delle ninfe Naiadi; la quale, accesa di lui, e non avendo corrispondenza in amore, il prese in un lago in cui egli stava sollazzandosi. Dove, trovandolo pur ripugnante alle sue voglie, pregò Giove che da lei no ’l lasciasse giammai dipartire; onde (non violata l’onestà di lui) si fece in un istesso corpo l’unione del sesso maschile e del donnesco, che volgarmente si noma Ermafrodito, sì come gli antichi poeti favoleggiarono.

Là dove il bel Pattolo
tra sponde di smeraldo
di lucid’or fa biondeggiar l’arena,
e per lidie contrade
e per frigie campagne
passeggia, umido il piè, lubrìco il passo,
quasi stanca la Terra
di riposar mai sempre,
stesa nel pian le smisurate membra,
sotto forma d’un monte inalza il capo;
monte che sembra appunto
appo Caucaso, Pelio, Olimpo ed Ossa
qual tra bassi virgulti alto cipresso.
Stanco talora il mauritano Atlante
sotto il grave del ciel stellato incarco,
a lui diede la soma
de le rotanti sfere,
a lui, ch’a la pesante e vasta mole
parve suppor vie più robusto il dorso.
Erge tanto le cime
oltre il confin de le volanti nubi,
che non ebbe giammai
o di piogge o di nevi
umido il crine o mascherato il volto.
Anzi, quasi sdegnando
il suo basso elemento,
par che voglia, superbo
occupator de l’aria,
nel gran regno di Giuno alzarsi un trono,
o che tenti, poggiando,
ribellarsi a la Terra e girne al cielo.
Sembra nuovo de’ monti alto gigante,
o vasto Briareo
di cento querce annose
erger le braccia e minacciar le stelle.
Al montuoso tergo, al vasto fianco
fanno un manto frondoso
verdeggianti campagne, orride selve
e cento fiumi e cento,
con tortuosi giri,
fanno a quel verde manto, al vago lembo,
di cerulei ricami umide liste.
Appiè de l’alta rupe un antro siede,

un antro opaco, ombroso,
cui fu Natura e l’architetto e ’l fabro.
Sovra la cava bocca
la gran maestra antica
curvo piegò di vivo sasso un arco,
da cui tremula pende,
quasi natia portiera
intrecciata di foglie, edra tenace.
Scorre avanti la soglia
di perle liquefatte un dolce rio,
un rio di gran torrente umido figlio,
che tra le verdi sponde
col tremolar de l’onde
sì dolce mormorio distingue e tempra,
ch’orgogliosetto ardisce,
rotto fra sassi e miniate pietre,
sfidar gli augelli ed emular le cetre.
Entro a l’alta spelonca,
che sembra aver tutto su ’l tergo il monte,
s’apre un’ampia finestra,
che dà spiraglio a l’aure e varco al sole.
Per entro il cavo speco
d’ogn’intorno verdeggia,
quasi serico drappo, edra serpente.
La gran madre d’Amor, la dea più bella,
cittadina selvaggia,
abbandonò sovente
per queste piagge amene
Amatunta e Citera, e Pafo e Gnido.
Appiè di questo monte
errò sovente Amore,
d’arcier fatto pastore,
e col dorato strale,
fu veduto cacciar selvaggi armenti.
La dea del terzo giro
tra quest’ombre, in quest’antro,
al suo zoppo geloso
celò sovente i suoi furtivi amori,
più che madre d’Amor, serva d’Amore.
Quivi sovente a Marte,
guerriero inerme e nudo,
fece altr’armi trattar che clava o scudo,
e strettamente avvinta
con braccia innamorate
al forte collo, a le robuste membra
tenacissima fe’ dolce catena;
e fra quest’ombre ascosa
non paventò giammai 
del fabro suo l’insidiosa rete.
Fra queste piagge errando
vide il frigio pastor le dive ignude,
e diè la memorabile sentenza
ond’ebbe in guiderdon la bella argiva,
e l’alma Citerea vinse fra loro
la lite di bellezza e ’l pomo d’oro.
Quivi Cillenio alfine,
prole di Maia e messaggier di Giove,
da la bella Ciprigna
fu ne l’antro e nel seno
(s’ha fede il ver) teneramente accolto.
Maravigliossi allora il gran tonante
(che risposte attendea) 
de le lunghe dimore
ch’obliando le stelle
traeva in terra il volator messaggio;
e disse: «Or ch’ei non torna, 
ah certo egli s’ascondea qualche froda, 
a qualche furto intento; 
o nel foco o ne l’onde
accesi ha forse o ’nfievoliti i vanni».
Egli intanto giacea
nel seno innamorato,
intento a furti sì, furti d’Amore. 
Arse le piume avea, 
ma fu d’Amor la face
che di lascivo ardore
acceso insieme avea le piume e ’l core. 
Avea fievoli i vanni 
non per l’onde del mar; ma neghittoso 
traea dolce riposo
in un mar di dolcezze, ove da stelle 
di duo begli occhi scorto,
giunse d’Amore e d’un bel seno al porto. 
Già sette volte il Sol ne l’oriente
la gran face del giorno accesa avea,
e sette volte ancor l’umida Notte 
avea spiegata in cielo
la sua vaga di stelle occhiuta pompa; 
e sempre vide il Sol, vide la Notte
fra i duo celesti amanti 
baci iterati e rinovati amplessi. 
Lasciò lo speco alfine
il nipote d’Atlante, 
e per l’alte del ciel campagne aperte 
sen gì battendo e ribattendo i vanni,
e de la bella amante 
lasciò vedovo il sen, fecondo il grembo. 
Già nove volte in cielo avea la Luna
tinto d’argento ed inarcato il corno,
ed altrettante era più bella apparsa, 
la sua lampa rotando, emula al Sole; 
quando alfin Citerea
dal bel fianco leggiadro
figliò maturo il parto; 
e nascer vide un novo sole il Sole, 
del facondo Cillenio unica prole. 
Al bel nato fanciullo  
fêr le Grazie vezzose 
con le braccia e col sen tepida culla. 
Porse a lui la Bellezza 
con la bianca mammella il primo latte, 
e nel tenero viso 
stampò d’alta beltà celeste idea. 
Al gentil pargoletto
fecero applausi intorno 
scherzante il Riso e vezzegiante il Gioco. 
Ed egli a l’aure uscito 
non fe’ di grida risonar lo speco,
ma suo compagno il Riso 
da la bocca di rose
i lamenti fugò, bandì le strida; 
e dal purpureo labro, 
senza strepito, uscir vedeasi un lume,
simile a quel del cielo  
quando talor senza tonar lampeggia. 
Non fûro i suoi begli occhi  
di fanciullesco pianto umidi fonti; 
ma sì soavemente 
aprì le dolci sue vaghe palpebre, 
che dal sereno e tenero oriente 
d’un leggiadretto volto  
parve quasi spuntar gemino sole; 
e ben predisse allor la madre altera  
che quel guardo gentile
esser dovea d’Amor ésca e focile. 
Egli intanto crescea  
col variar degli anni;
e la madre gentil, bramosa e vaga 
d’effigiar se stessa nel sembiante del figlio,  
al bel guardo, al bel viso, 
de l’istessa Bellezza assai più bello, 
ogni giorno giungea 
di crescente beltà raggio novello. 
Ecco che, di fanciul fatto garzone, 
con l’armi del bel viso 
egli diviene espugnator, trionfator de’ cori. 
Qual ritratto spirante 
egualmente somiglia 
il genitor, la genitrice al nome, 
il genitor, la genitrice al volto. 
Quanta bellezza insieme  
Argo già vide un tempo, 
e Cipro e Delo, tutta insieme raccolse
e ’l fior ne trasse il cielo e la Natura; 
indi in questa figura  
quel misto di bellezze infuse e strinse, 
e fabricò di mille volti un volto. 
Sovra l’eburnea fronte pende la chioma errante,  
che, sottile e tremante, 
e sferzata da l’aure,
vezzosamente in fiocchi d’oro ondeggia; 
e talor lascivetta, 
innamorata anch’essa, 
intorno a quel bel viso, 
quasi per abbracciarlo, 
stende teneramente aurate braccia, 
e, con crespe vezzose in giù serpendo,
de la bianca cervice 
fende con solchi d’or le nevi intatte. 
Se tu miri la fronte, 
diresti: è un orizonte  
ch’a lo spuntar d’una serena aurora 
di lucido candor s’adorna e splende; 
e come sotto l’alba il sole 
spunta in fronte l’alba e ne’ begli occhi il sole. 
Vezzosetto rosseggia 
l’animato corallo, 
fonte del favellar, seggio del riso, 
e in ogni moto par ch’inviti al bacio. 
Gentil varco, onde spira
un zefiro odorato,
che le fiamme d’Amor spirando accende; 
bocca che lascia in forse 
altrui quand’ella sia più dolce e bella, 
o se ride o se bacia o se favella. 
Ne la tenera guancia,  
quasi in cespo fiorito, 
tu vedi altera e ’n maestà pomposa, 
tra candidi ligustri 
insuperbir, porporeggiar la rosa; 
o spettacol d’Amore, 
veder che spunti infra le nevi il fiore. 
Nel vago giovinetto 
l’abito, il crine, il volto 
vezzosamente è incolto, 
più bel quanto men bello esser procura,  
e mostra ogni sua parte 
quanto vaglia in beltà l’arte senz’arte. 
Contempli pure, imaginando, e miri 
avveduto pensier, cupido guardo, 
che, dal piè leggiadretto al crin dorato, 
ogni membro, ogni moto,  
insidioso a l’alme, 
una fiamma saetta e scocca un dardo.
Ei mosse un tempo ambiziosa lite 
al suo germano arciero, però ch’esser volea 
(come di lui più bello)  
nume d’Amor, saettator de’ cori;  
ma la lor genitrice,
de la bella tenzon giudice fatta, 
in tribunale assisa,
nel leggiadro garzon gli occhi fisando: 
«Questa, disse, tra voi mai sempre sia  
eterna, irrevocabile sentenza:  
Porti l’arco Cupido,  
tu porta l’arco, o figlio; 
egli il porti su ’l fianco e tu nel ciglio. 
Ferisca egli col dardo,  
impiaga tu col guardo. 
Ognun porti la face e fiamme scocchi; 
egli la porti in mano e tu negli occhi». 
Già il vezzoso garzon, seme del cielo, 
avea compiuto il terzo lustro appena, 
quando d’abbandonar prese consiglio 
 lo speco e Frigia e le natie contrade, 
al generoso cor termini angusti; 
e fuor del patrio nido alfin lo spinse 
desio di gloria e di vagar vaghezza.  
Bramò d’aver sovente 
i veloci talari,
del suo gran genitor pennuto arnese, 
per vagheggiar, peregrinando intorno, 
qualunque clima il sol riscalda, e quanto 
porta in grembo la terra, e quanto chiude  
fra le spumose braccia il salso flutto. 
Vide i regni di Licia, e in essa il monte 
ove già il mostro orrendo, 
la triforme Chimera, 
animata fornace, Etna spirante, 
di fiamme aver solea 
gravido il seno, e da tre vaste bocche 
arsiccie e nere  
spirar incendio e vomitar faville.
Indi rivolse il piede 
ai confini di Caria, e vide in essa
ben mille e mille intorno 
sorger villaggi e torreggiar cittadi. 
A le rive di Caria,
verso il gelido polo
dove alberga Aquilon, 
splende Boote, 
vide intorno vagante, 
fra girevoli sponde, il bel Meandro, 
che, quasi peregrin ch’errante e vago 
per ignote contrade abbia smarrito 
del suo primo sentier la scorta e l’orme, 
parte, gira, ritorna, 
indi, quasi pentito, 
parte di nuovo, e poi se stesso incontra, 
e con ritorto corso 
e con lubriche rote
 forma, girando, un labirinto ondoso. 
Tra le piagge di Caria il giovinetto 
alfin gira le piante a quel loco fatale, 
là dove il guida il suo nemico Amore, 
d’alma crudel vendicator possente. 
Sì vago, ameno è il loco, 
che ’l grand’occhio del ciel pari non vede 
da la foce del Gange al piè di Calpe. 
Quivi con ampio giro 
un bel prato si stende, 
a cui cento ruscelli, 
col fuggitivo lor mobile argento, 
fan verdeggiar mai sempre il manto erboso. 
Le cadenti ruggiade, 
i zefiri spiranti, 
irrigando e soffiando,
a la vaga de’ fior lieta famiglia 
porgono eternamente umore e vita. 
Ed essi in varie guise, 
quasi stelle odorate, 
o di vario color gemme minute, 
rappresentano altrui 
un bel fiorito ciel, stellante un prato.
Intorno al verde suolo 
fanno i pini e gli abeti alta corona, 
e paion fabricar frondoso un muro, 
o verdeggiante un vallo, 
per mantener muniti 
da l’assedio del sole i fiori e l’erbe; 
e ’n quella guisa appunto 
che talora spirante aura leggera 
va formando su ’l mar tremule crespe, 
così quivi soffiando un vento molle 
fa con aura gentil, carca d’odori, 
ondeggiar, tremolar l’erbette e i fiori. 
In mezzo al prato adorno, 
quasi gravida il sen, la terra aprica 
tumidetta si gonfia, e forma un colle, 
a cui ridente e molle 
Primavera mai sempre 
smalta d’erbe il terren, l’erbe di fiori. 
Sbocca di grembo al poggio 
di cristallino umor vena feconda, 
che, con dolce susurro, 
lievemente cadendo in conca di smeraldo, 
di ruscelletto si trasforma in lago. 
Qui non canna palustre, 
non giunco od alga immonda 
turba il chiaro de l’acque umido letto, 
ma come il sol per lucido cristallo, 
così ’l guardo per l’onde 
penetrando s’interna, e scorge in quelle 
di coloriti sassi 
dipinto il suolo e miniato il fondo, 
e, mirando, distingue 
i muti nuotatori a cento a cento, 
ch’hanno d’ebano il dorso, il sen d’argento.
I fiori in su le sponde, 
quasi Narcisi novelli, 
per specchiarsi ne l’onde 
piegano il collo e l’odorato capo; 
e sì vaga di lor viva sembianza, 
con limpido pennel, l’acqua ritragge, 
che distinguer non puossi, 
o ne l’onda o su l’orlo, tra l’incerta 
de’ fior gemina schiera 
qual sia di loro o simulata o vera. 
Del bel poggetto a la sinistra falda 
siede opaca selvetta, 
in cui frondeggia il mirto, ombreggia il lauro, 
e l’ombra densa e fresca 
da la testa de’ tronchi 
cade su ’l piede al colle, in grembo al lago. 
Fan quivi altera pompa 
de le ricchezze lor Bacco e Pomona; 
quivi l’ombra è sì densa, 
che tra le frondi il cielo non penetra 
col sole e non appare, 
ma quasi un altro ciel vago, 
contesto di rami, verdeggiar quivi si mira; 
e se questo non gira, 
mostra ben egli almen, tremule e belle, 
le sue poma dorate, e paion stelle. 
I più degni augelletti, 
musici semidei, pennuti eroi, 
lungi dagli altri augelli, 
fan quivi il nido lor, quasi sdegnando 
de la plebe volante il vil concerto, 
però che più degli altri 
di lievi gemme han variato il manto, 
più vago il rostro e più canoro il canto. 
Nel bel romito loco
ben mostran d’ogn’intorno 
i fior, l’erbe, le piante, e l’ombre e l’ôra, 
che quivi Amor soggiorna, e Febo e Flora. 
Stassi tra queste piante, in riva al lago, 
ninfa bella e leggiadra, 
più bionda il crin, più vezzosetta il guardo, 
più bianca il sen, più dilicata il volto, 
ch’altra fosse giammai veduta in selve 
o per campagne errante 
mover piè, coglier fiori o premer l’erbe. 
Ella però non ebbe unqua vaghezza 
o d’affrontar con l’asta orsa spumante
o col fiero molosso aspro cignale; 
né mai dietro la traccia 
o di volante o di corrente preda 
lasciò rapace augel, rapido veltro; 
né con l’altre compagne unqua contese 
con l’arco al segno o con le piante al corso. 
Le Naiadi sorelle dissero a lei sovente: 
«Segui, o SALMACE bella, 
de la bella Diana e l’arti e l’orme; 
prendi una volta, prendi 
o ’l dardo in mano o la faretra al fianco». 
Ma la ninfa gentile, 
d’altri studi seguace, 
del bel fiorito loco altera donna, 
fuor del romito suo noto confine sdegna 
con l’orme sue stampar l’arena. 
Quivi a le belle membra 
porge il lago vicino 
di tepido licor dolce lavacro, 
il bel lago vicin, che crebbe ai pianti 
di ben mille da lei sprezzati amanti. 
Vaga sol di se stessa,
or con la man di neve tratta 
eburneo stromento, 
quasi di mille denti aratro acuto, 
con cui, per seminar strali d’Amore, 
ara del biondo crine il campo aurato. 
Adornando le chiome, 
or le distingue in tortuose treccie, 
or con bel nastro d’or l’aggira e strigne; 
e sempre, o strette o sciolte, 
han pur mill’alme in mille lacci involte. 
Or com’adorni il seno, infiori il crine, 
al fonte lusinghier chiede consiglio, 
corcandosi in grembo al verde suolo 
si fa d’erbe e di fior morbido letto. 
Or va succinta in bianca veste e pura, 
or agli omeri adatta 
di celeste color serica gonna, 
ch’è ricamata a stelle e d’or trappunta. 
Or copre il piè leggiadro 
d’argentato coturno, 
cui fan ricco le gemme e l’oro e l’opra. 
Or per la bella piaggia 
sen va, disciolta il crin, nuda le piante, 
e raccogliendo i fiori, 
non di tutti egualmente il grembo colma, 
ma sol di quei fa scelta 
che di candido latte 
han dipinte le foglie, o di cinabro, 
per farne un paragone al seno, al labro. 
E se raccoglie un fiore, 
per baciarle il bel piede un altro spunta, 
e veder non si può quai sien maggiori, 
i doni o pur le prede, 
mentre fura la mano e dona il piede. 
Allor fiori cogliea, quand’ecco apparve
il figlio di Cillenio e di Ciprigna. 
Vibra la ninfa in lui cupido il guardo, 
e del guardo il pensier segue la traccia; 
e l’uno e l’altro in quel celeste oggetto, 
di beltà, di piacer si nutre e pasce, 
ma d’Amor, di desio sugge veleno. 
Indi il guardo e ’l pensier, quasi canale 
d’un torrente di foco, 
per la foce degli occhi 
sgorga su ’l petto incendioso un fiume, 
e ’n diluvio di fiamme il cor sommerge. 
Muove la ninfa il piede 
ver’ l’amate bellezze 
per iscoprir la fiamma a chi l’accende. 
Ma in que’ begli occhi vede 
una lascivia onesta, 
che se l’alme innamora, 
le fa timide ancora. 
Onde s’Amor la sprona, 
il timor la raffrena, 
e se ’l cor ha veloce, il piede ha lento.
Pur vede in quel bel volto 
un non so che di maestà non schifa, 
che se l’alme sgomenta, ancor l’affida. 
Onde fra dubbio e speme, 
timidamente ardita, a lui s’appressa, 
e manda fin dal centro del core
un sospiro, un oimè, nunzi d’Amore. 
Alfin tanto di spirto 
dal suo cordoglio impetra, 
ch’alcune può formar voci, ma tronche,
e nel suo favellar chiaro
 risuona un non so che d’affettuoso e mesto, 
che par che dica ogni sua voce: Io moro.
«O garzon peregrino, 
deh, s’hai, com’il sembiante, anima bella, 
ferma il bel piè tra queste selve, ferma; 
venner ben talor anco 
numi del cielo ad abitar le selve. 
Deh posa o su quest’erbe 
o ’n questo seno l’affaticato fianco. 
Qui l’aura è dolce e fresca; 
fresca se non l’infiamma 
l’ardor de’ miei sospir, de’ tuoi begli occhi, 
di que’ begli occhi, ahi lassa, 
ch’ebber sì pronta a’ danni miei l’offesa, 
ch’io fui da lor, pria che veduta, accesa. 
O mille volte e mille
SALMACE avventurosa, 
se com’amante, così amata o sposa, 
te nel suo letto e ne le braccia accoglie. 
Ma s’altra è pur tua sposa, 
non isdegnar, ti priego, 
che pochi baci occulti 
da la tua bocca a la rivale io furi. 
O s’altra ninfa, o dea, 
nutre nel tuo bel seno un più bel foco, 
deh concedi pietoso, 
concedi a chi si muore 
baci almen di pietà, se non d’Amore. 
E s’ancor la pietade 
ti par sovverchia al mio languir mercede, 
non mi negar almeno 
ch’io prenda, anzi ch’io mora, 
baci, se non d’amante, almen di suora». 
Qui tace, e già s’accinge 
ad abbracciarlo, ad unir bocca a bocca. 
Ma niega egli, e s’arretra 
altero e non curante,
come freddo in amor, sordo a l’amante; 
e vergognando tinge 
di novello rossor l’ostro natio: 
“Che lingua innamorata 
a chi d’amore è sciolto, 
quando il cor non accende, accende il volto”. 
Poi, schivo ed orgoglioso: 
«O ninfa, egli risponde, 
se tu non parti, io parto, 
ché nutre alti pensier la mente mia, 
non di lascivo ardor, non di follia». 
Ed ella ubidiente 
non può soffrir che parta 
(perché non vuol morir) l’anima sua. 
Onde, timida e mesta, 
ne l’ombrosa selvetta il piè rivolge, 
per poter vagheggiar, non vagheggiata, 
infra le piante ascosa 
del bel garzon vergognosetto il volto. 
Era ne la stagion che ’l gran pianeta 
de la fera nemea preme le terga, 
e su l’alto meriggio, 
dal suo bell’arco acceso, 
del più cocente ardor gli strali avventa. 
Stanco, anelante, il peregrin vezzoso 
quivi frena le piante, e ’n braccio a l’erbe, 
dove stende un abete opaca ombrella, 
vago di riposar, si corca e giace. 
Fûr vedute l’erbette 
alzarsi a lui d’intorno, 
per dare a quel bel viso 
col verde labro avidamente un bacio. 
Il candido ligustro 
e ’l vermiglio amaranto 
videro in quel sembiante
e biancheggiar la fronte 
e rosseggiar la guancia 
di più puro candor, d’ostro più bello.
L’abete innamorato 
piegò la fronte ombrosa, 
stese le verdi sue ramose braccia 
per dargli un bacio, un amoroso amplesso. 
Egli intanto piovea 
da la fronte e dal crine 
di stillante sudor lucide perle, 
e dagli occhi piovea 
sovra il cor de la ninfa, 
che da lungi il vedea, nembi di foco. 
Quindi volge le piante 
colà dove l’invita dolce 
il susurro e ’l zampillar de l’onde, 
e per la verde riva, 
trattosi il bel coturno, 
se ne va spaziando, e bagna il piede. 
Sente destarsi il lago 
nel suo gelido sen fiamme d’Amore; 
né di baciar contento 
con le liquide labra il bianco piede, 
per meglio avvicinarsi, 
brama d’aver, lascivo, 
maggior copia d’umor, più cupe sponde; 
e ben, quanto può, l’onde alzar rassembra, 
per bagnar, per baciar tutte le membra. 
Sovra il limpido specchio 
il leggiadro garzon piega la fronte, 
e nel finto sembiante, 
che tra l’acque vagheggia, 
per immensa beltà se stesso ammira; 
e, di se stesso vago, 
arderebbe d’amore,
se non che gli sovviene il folle esempio 
del semplice Narciso, 
da se stesso e dal fonte acceso, ucciso. 
Talor le mani stende, 
e d’ambe insieme unite, 
incurvando le palme, 
fa di vivo alabastro angusta coppa; 
poi la sommerge ed empie 
di soave licore; indi ne porge, 
e bevanda e lavacro, al labro, al volto. 
Mira la ninfa intanto i begli atti lascivi, 
e mentre egli pur beve, anch’ella beve; 
beve ella sì, ma in variata foggia, 
ch’egli beve nel fonte, 
ed ella in duo begli occhi; 
egli sugge de l’onde il fresco umore, 
ella beve da quei foco d’Amore. 
Ecco invitato alfine 
da la cocente arsura, 
da lo spirar de l’aure, 
da le tepide linfe, 
trasse dal bianco sen le spoglie aurate, 
indi tutte mostrò le membra ignude, 
e, qual novello sol, deposto il manto, 
quasi d’oscure nubi un fosco velo, 
innamorò di sue bellezze il cielo. 
La bella ninfa allora 
di stupor e d’amore agghiaccia, avvampa, 
e dice: «Oimè, che veggio? 
Qual deità celeste 
oggi lasciò per queste piagge il cielo? 
Agli atti, a le sembianze, 
a le piaghe, a le fiamme, 
onde l’alma traffige e m’arde il core,
egli pur sembra Amore; 
e se l’ali non porta, 
l’ha prestate al mio cor, ch’a lui sen vola. 
Ahi bella, ahi dolce vista, 
Mongibello animato, 
ch’è coperto di neve e fiamme avventa. 
Ahi feritor crudele, 
che per far nel mio core 
i colpi e le ferite 
più mortali e più crude, 
tutte de la bellezza ha l’arme ignude». 
Ei da la verde sponda, 
con un salto leggero, 
alfin spiccossi, e guizzando ne l’acque 
inargentò di bianca spuma il lago. 
Quivi si pone audacemente a nuoto, 
le belle braccia inarca, 
e mentre or le ristrigne, or le distende, 
con quell’arco d’avorio, 
de la ninfa, che ’l mira, il cor saetta. 
Poscia quell’arco allenta, 
e cangia forma al nuoto, 
e, con uffizio alterno, 
or questa, or quella man l’onda percote. 
Il piè leggiadro ancora 
de la candida man s’accorda al moto, 
si distende con lei, con lei si stringe, 
quand’ella fende l’acque, egli le spinge. 
Parean le belle membra 
fra liquido cristal nevi guizzanti, 
o tra lucido vetro 
candidissimi avori, o gigli ascosi; 
e l’umidetto crine 
sovra l’acque parea 
quel vello d’or cui già portò per l’onde
da le rive de’ Colchi il legno argivo. 
La ninfa arde e si strugge, 
stupida il ciglio e palpitante il core, 
e non è la sua vita altro ch’un guardo. 
Scioglie la lingua alfine 
a lamenti interrotti, 
ch’escono a mille a mille, 
quasi del chiuso ardor fumi e faville:
«Deh, perché non poss’io, 
quasi un’altra Aretusa, Aci novello, 
stillarmi in acqua e liquefarmi in fonte? 
Che così, forse, ahi lassa, 
potrebbe il mio bel sol, l’idolo mio, 
nel mio grembo guizzar, nuotarmi in seno». 
Volea più dir, ma il traboccante amore 
chiude il varco a la voce e l’apre al pianto, 
e un intenso dolor tanto l’accora, 
che diresti, o non vive o par che mora; 
e non dà segno altrui che viva o spiri, 
se non col pianto suo, co’ suoi sospiri. 
Tace, ma infra se stessa, 
come prima a le selve, al cor ragiona: 
«Che fai, mio cor, che temi? 
SALMACE neghittosa, 
ardisci e spera e tenta, 
e ’l tuo nemico, or ch’egli è nudo, assali. 
Ecco al varco la fera 
che Crudeltà ti tolse, or t’offre Amore, 
fatto de’ tuoi martìr forse pietoso. 
Se vuoi, se tanto ardisci, 
chi del tuo cor fe’ preda, or fia tua preda; 
tu la ’ncontra e la prendi, 
ché ben degno il tuo furto è di perdono; 
facciasi il furto a chi contende il dono». 
Così dicendo infiamma
d’ardore il volto e d’ardimento il core; 
e si muove e s’avanza, 
e corre già rapidamente al lago. 
Poi si pente e si ferma, 
e ’l piè, sospeso in aria, 
resta in forse, o se vada o pur se torni; 
or s’arretra, or s’inoltra, 
or sembra audace, e poi d’osar non osa; 
or avvampa, or agghiaccia, e in un momento 
cangia speme, pensier, voglia e spavento. 
Da le furie d’Amor sospinta alfine, 
bella d’Amor baccante, 
squarcia al seno la gonna, al crine il velo, 
e, qual fera selvaggia 
da la fame agitata, 
esce fuor de la selva, e giunta al lago, 
famelica d’Amor, guizza ne l’onde.
Quivi al bel nuotator s’avventa e strigne, 
e con tenaci braccia 
unisce petto a petto e bocca a bocca. 
Egli, ch’Amor non sente, 
d’improviso timore agghiaccia e trema; 
volea gridar, ed ella disse: «Ah, taci.», 
e la bocca gentil chiuse co’ baci. 
Ma, ritrosetto e schivo, 
pugna, resiste e niega, 
e di fuggir pur tenta 
de la bella nemica i nodi e l’arti. 
Ella vie più tenacemente il cinge 
e ’l preme e ’l bacia, 
e lo si strigne al seno. 
Ei sembra avida serpe 
cui rapisce talor l’augel di Giove, 
che, quanto più sublime 
per lo campo de l’aria egli la porta, 
ella con torti giri
e con lubrica coda al fiero artiglio 
tenacissimi ceppi avvolge e strigne, 
e di frenar si sforza 
del rostro i colpi e l’agitar de l’ale; 
e giudicar non lice 
qual sia di lor più strettamente avvinto, 
e sta quasi in pensier dubbio qual creda 
che sia di loro o predatore o preda. 
Teme, ahi, teme la ninfa 
non l’involato bene a lei s’involi, 
e mesta e sospirosa 
volge le luci al cielo, e piagne e prega:
«Non avrò dunque, ahi lassa, 
per la vittoria mia dolce trofeo 
ne la lutta d’Amore altro che baci?
Deh, grande e sommo Giove,
s’egli è pur ver ch’un tempo
s’accese nel tuo cor fiamma d’Amore, 
e ’n sembianza di tauro
da le sidonie sponde
traesti già per l’onde 
di bel furto amoroso onusto il tergo,
fa’ che tra l’onde anch’io
vinca il crudele, il non amante amato, 
e ’l mio furto d’Amor non mi si tolga. 
Strigni, tu strigni, o Giove, 
seno a seno, alma ad alma e core a core
con nodi indissolubili e tenaci,
sien catene le braccia e nodi i baci.
O se vuoi pure (ahi, sfortunata amante) 
che costui dal mio sen disciolto sia,
sciolgasi anco dal cor l’anima mia».
Sì disse, e Giove udilla; 
quand’ecco (o meraviglia)
l’un ne l’altra si cangia; 
egli in lei si trasforma ed essa in lui, 
e un invisibil nodo
 fa di gemino corpo un corpo solo.
Entro il femineo corpo
maschio vigor si chiude, 
e nel corpo virile
si mischia e si confonde il sesso imbelle.
L’uno e l’altra pur ancor spira e parla e sente, 
vive pur egli ancora e vive anch’ella, 
né più dir si potrebbe è questi, è quella. 
Su la sinistra sponda
de l’italico Reno,
a la sua bella IOLE 
così dicea, favoleggiando, AMINTA.
Indi soggiunse: — O ninfa, 
tu più bella di lui, di lui più cruda,
a me, di lei più fieramente acceso, 
t’unirai forse ancora
per vendetta del cielo,
ch’egli può ben unir col foco il gelo. —
Così detto, il pastore
al ragionar con un sospir fe’ punto.
Ella di lui si rise, ed egli pianse.
Allor l’eterno auriga in occidente
sciolse i destrier dal suo bel carro adorno,
e fine impose al favellare, al giorno.

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